Dalla pubblicazione di For Emma, Forever Ago, il suo album di debutto come Bon Iver, Justin Vernon ha continuato a creare musica formalmente sperimentale ma incredibilmente introspettiva, raffinata, per certi versi impossibile da categorizzare all’interno di un solo genere. Il progetto Bon Iver sembrava avesse compiuto il suo ciclo discografico nel 2019 con il quarto album, I, I, opera magistrale che ha segnato anche l’apice del successo della band, ma soprattutto del frontman. La strada che ha condotto al suo nuovo EP è stata lunga e tortuosa: SABLE, ne rappresenta il risultato. Tre tracce – quattro, considerando l’intro di dodici secondi, per un ascolto totale di dodici minuti – che racchiudono il periodo trasformativo, di rivelazione, tradotto da Vernon in brani di pura voce e chitarra. La riscoperta dell’essenziale, anche nelle sue sfumature più autentiche, più crude, che rimandano proprio al processo artistico dell’acclamato debutto di For Emma, Forever Ago. Come vuole la storia – diventata ormai quasi leggenda – Vernon registrò l’intero album nell’isolamento della capanna di caccia di suo padre a Eau Claire, nel Wisconsin, dopo essere stato allontanato dalla sua band precedente, aver chiuso una relazione e aver contratto sia la mononucleosi che una malattia al fegato. Le condizioni che soggiacciono alla creazione di Sable, sono molto simili: la necessità autoimposta di isolamento forzato. La nota dell’artista rivela che ha “sviluppato sintomi fisici reali da profonda ansia e pressione costante” e ha avuto bisogno di scusarsi con “un paio di persone che amava e aveva ferito” di conseguenza.
Un isolamento definito dallo stesso Vernon come un «ritiro e reset», coinciso con l’inizio della pandemia, culminato con un «crollo a lungo maturato». Anche la sessione di registrazione di SABLE, ha seguito, a ritroso, le tracce verso Eau Claire, ad April Base, nello studio personale di Justin – «April Base ha subito un intenso processo di ristrutturazione proprio all’inizio del 2019, ed è allora che abbiamo spostato la maggior parte delle cose in Texas e ci siamo sistemati lì per quasi un paio di mesi, fino all’inizio del tour, nel 2020. Poi, la pandemia. Lo studio era vuoto. Così mi sono trasferito di nuovo lì, ho allestito tutta la mia attrezzatura da zero. È stata un’esperienza molto utile, semplicemente nel gesto di districare i cavi per ore e ore», ha raccontato in un’intervista al The New Yorker. SABLE, inizia con una fine. Appena si preme play, a risuonare è un fischio acuto, quasi dissonante. Ricorda l’allarme che perfora l’aria prima di un uragano o di un terremoto, o l’interruzione delle telecomunicazioni, o forse, il grido di un monitor nel frangente in cui il cuore si arresta. Stavolta, per creare, Justin ha dovuto prima distruggere. Lavare via la crescente espansione di artifici, produzione, simbologia, progetti paralleli, amici famosi, travestimenti, tentativi di evasione dalla fama: tutti marchi di fabbrica del progetto noto come Bon Iver. Affinché la sua arte potesse continuare a vivere, qualcosa doveva morire. Non è un ritorno alle origini, bensì una metamorfosi, come affermato dallo stesso cantautore – «Con l’uscita di questi brani, è ovvio che i miei ascoltatori potessero pensare ad un ritorno a For Emma, Forever Ago. Credo sia più l’immagine sonora di una seconda pelle, più grezza. Penso al tempo come cerchi cilindrici in movimento, che disegnano una nuova persona, lontana da cori ridondanti. Avvicinarmi il più possibile all’orecchio umano».
Avvicinarsi anche al dolore, senza paura, per distillarne il significato salvifico, di rinascita, sia personale, sia universale. SABLE, è un sinonimo di “nero”, “buio”. Di lutto. Al di là della concezione romantica che la sofferenza porti ad una ispirazione artistica più elevata, Vernon abbraccia l’oscurità in chiave generativa, premendo sui lividi, esprimendo senza paura un concentrato di inquietudine, per intravedere la luce oltre la crepa. La prima scintilla è Things Behind Things Behind Things che avvolge da subito in un’atmosfera di edulcorato tormento. La chitarra acustica a dodici corde e la produzione delicata creano una base folk su cui si stratifica la voce di Vernon, moltiplicata in più tracce, mentre la pedal steel guitar aggiunge profondità emotiva. Il ritornello, con la ripetizione ipnotica di “things behind things behind things” evoca il labirinto di elucubrazioni intrecciate, senza apparente via d’uscita. In Speyside, il pattern musicale e il lirismo si fanno ancora più intimi. La voce di Vernon e la chitarra acustica sono in primo piano, accompagnate da delicati violini che sottolineano la fragilità del momento. La scrittura cattura un senso di desolazione e impotenza: “I know now that I can’t make good/How I wish I could”. Qui, il tema centrale è la colpa: Vernon si confronta con i propri errori, esprimendo rimorso per aver deluso le persone a lui care: “Yeah, what is wrong with me? Man, I’m so sorry”. L’apologia è sospesa dalla breve ma divina introduzione di una viola – per gentile concessione del collaboratore Rob Moose – Justin trasforma l’oscurità in speranza, forse per la prima volta nell’EP: “But maybe you can still make a man from me”.
A livello strumentale, la pedal steel guitar, presente in entrambi i brani, assume un ruolo da protagonista in SABLE. Vernon la definisce «lo strumento musicale più bello che l’umanità abbia mai creato», e la sua capacità di imitare la voce umana e di scivolare tra gli accordi aggiunge una malinconia struggente alle composizioni. Awards Season, in chiusura, presenta a sorpresa un attacco a cappella, filtrato da ogni surplus, e accompagnato dal rintocco rassicurante di una campana tibetana. La canzone si evolve gradualmente, introducendo pianoforte, sintetizzatori e un arrangiamento di fiati che sfocia in un interludio euforico. Si traduce così il passaggio dal dolore alla rinascita, dalla contrizione alla possibilità di redenzione. “I can handle, Way more than I can handle”, recitano i primi due versi dell’ultima traccia, nella consapevolezza dei propri limiti, della propria fragilità e, soprattutto, della propria forza ritrovata. Inaspettatamente. «Essere resilienti. Andare avanti, riconoscendo anche il punto in cui devi tornare indietro, perché il meccanismo non funziona più – ha dichiarato Vernon, nella stessa intervista al The New Yorker – La metafora che ho sempre usato è quella del motore senza olio. Se continui a tenerlo in moto, farai danni irreparabili. Ci vuole molto tempo per ri-oliare, per resettare la macchina. Ricordo che io e mio padre vedemmo il combattimento tra Buster Douglas e Mike Tyson quando ero piccolo. La mamma di Douglas era appena morta, ma lui non si tirò indietro per la sfida, sostenendo che è questione di stringere i denti. Quando sento di non farcela, ripenso a questo, a stringere i denti. Ci sono momenti in cui devi farlo e procedere, altri in cui devi chiedere aiuto».
L’EP culmina in una sorta di dialogo dolceamaro tra l’autore e il suo interlocutore, che non tentano più di afferrare ciò che va al di là di una spiegazione razionale ma si attengono al potere dell’essere umano di agire, creare – “It’s so hard to explain/And the facts are strange/But you know what will stay?/Everything we’ve made” – in una sospensione prolifica, simboleggiata dalla stessa virgola nel titolo di SABLE, il segno universale del “non- finito”, “dell’in-finito”. O dell’appena iniziato, come è appena iniziata la nuova era dei Bon Iver, all’insegna della verità, dell’urgenza espressiva, artistica e personale: «Stavolta, con SABLE, è stata davvero questione di necessità. Queste canzoni erano in fermento da almeno cinque anni, ed era arrivata l’ora di condividerle perché racchiudono una verità che ho individuato, o di cui sono stato un veicolo. Sono tre, disposte come un trittico, un triangolo equilatero che copre lo spettro dall’accettazione dell’ansia all’accettazione della colpa fino all’accettazione della speranza. In successione. Non c’è spazio per un prologo o un epilogo a quel punto. Perché è tutto. È tutto ciò che c’è». È tutto ciò che può, semplicemente, essere.