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I Royel Otis se ne fregano delle aspettative

La musica dei Royel Otis non vuole insegnarci nulla, soltanto farci sentire come si sentono loro. E ora, dopo un debutto sorprendente con “Pratts & Pain” e un tour sold out, sono pronti per il grande salto

Parte con una riflessione generazionale quella che si delinea fin da subito come una semplice conversazione, senza prese di posizione o ruoli definiti. Troppo spesso io e i miei coetanei combattiamo con la sensazione di dover rincorrere la vita. La società che ci ha tirato su diventa ogni giorno più competitiva e impone canoni realizzativi sempre più rigidi. “Viviamo in un sistema in cui tutti devono diventare qualcuno”, ho sentito spesso dire. Ma chi l’ha deciso? E quando? Chi ha stabilito che la competizione debba essere talmente serrata da diventare tossica, distruttiva? Ci siamo abituati a standard troppo alti da poter sostenere nel tempo, e fare letteralmente “quello che ci va” è diventata la vera ribellione dei nostri tempi. Non sarà questo un sermone sugli stereotipi da social, non possiamo permettercene un altro in quest’oceano di luoghi comuni. Sarà soltanto il fugace tentativo di descrivere lo stato d’animo di una generazione. Se il mondo dovesse collassare domani e qualcun altro fosse costretto a ricostruirlo da capo, di noi cosa dovrebbe ricordare? Probabilmente, guardandola da un punto di vista alquanto leopardiano, l’ansia. Portando il discorso verso il polo più estremo della sua drammaticità, ci rendiamo conto che la verità non è troppo distante. L’inquietudine è ciò che ci caratterizza, la sensazione di affanno. Ci siamo accorti da pochissimo che il piede va staccato dall’acceleratore per evitare di scontrarsi contro il muro.

“L’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale”, aveva asserito qualcuno in tempi non sospetti. E ora più che mai dovremmo dargli credito. La riflessione, a questo punto, si trasforma in un appello simbolico. Dovremmo tornare a essere normali, dovremmo smetterla di inseguire un mito a tutti i costi, dovremmo imparare a godere della bellezza, a riabbracciare la sensibilità. Forse, dovremmo soltanto smetterla di gareggiare. La corsa a perdi fiato verso lo stereotipo del “realizzarsi a tutti i costi” va arrestata il prima possibile. La prima volta che ho ascoltato Pratts & Pain dei Royel Otis mi sono sentito sollevato da questa melanconia. Perché c’è tutto quello che volevo sentirmi dire dall’album d’esordio di due ragazzi come me. Volevo che qualcuno mi rassicurasse sull’incertezza del mio tempo, sulle relazioni tossiche, sull’amore, sul sesso, sulla spensieratezza, sulla competizione, sulla salute mentale. Parlare con Royel Maddell e Otis Pavlovic dare valore ai nostri spunti di riflessione mi ha fatto sentire uguale a loro, come la prima volta che ho ascoltato il disco. Ho avvertito un forte senso di appartenenza. Mi hanno infuso leggerezza e una ritrovata fiducia nella mia generazione, due sensazioni che avvertivo rugginose da qualche tempo: «Siamo convinti al cento per cento che tanti nostri coetanei possano lasciare un segno concreto nella storia, anche a livello artistico. Ci sono tantissime cose incredibili in questo momento, e tutto cambia continuamente. Nella musica soprattutto, siamo circondati da cose fighissime. Anche nel pop più mainstream c’è una varietà immensa e questo è un bene per tutti noi».

Affrontare il successo è ancora un’esperienza che si srotola lentamente, quasi con incertezza. Soprattutto se quel successo ti ha investito e sbalzato in aria senza nessun preavviso. Succedono mille cose in pochissimo tempo e lasciarsi travolgere è questione di attimi. L’atteggiamento disilluso sembra essere la risposta, il non rendersene conto la scelta più azzeccata. «Non ci sembra ancora di vivere una fama così enorme, ma forse dall’esterno appare più evidente», mi confessano. Nonostante ciò, è inevitabile che qualche cambiamento emerga; nuove esperienze li spingono a muoversi costantemente in direzioni che forse non avevano previsto, «dove dobbiamo sempre essere in movimento e costantemente sotto i riflettori». Il palco è il luogo in cui si trovano a dover affrontare le insicurezze, quelle che ti bloccano. Ci sono migliaia di occhi a guardare. Le paure si amplificano, le ansie rendono tutti i suoni ovattati, come in una bolla. «Non ci sentiamo del tutto a nostro agio, ma lo affrontiamo bevendo un po’ di tequila e facendo dei giochi prima del concerto per tenere la mente occupata fino a quando è ora di salire sul palco». È la versione più genuina del concetto di “preparazione” a un evento così provante. Ricordare la propria età, ricordare di divertirsi e abbandonare tutto il resto al fato. Quello che deve accadere, accadrà. L’attitudine è quella che conta, dimenticare il dove e il quando e lasciarsi andare, nient’altro. Ritorna l’aspetto generazionale della musica di Royel e Otis, che non si prende troppo sul serio, che rallenta le aspettative e neutralizza le pressioni.

La musica dei Royel Otis non vuole insegnarci nulla, soltanto farci sentire come si sentono loro. Soltanto scatenare sensazioni, le più veraci, le più reali. È così che riescono a rappresentare chiunque ascolti un loro pezzo, o un loro live. Non c’è un fine, soltanto aprirsi, nella maniera più pura e schietta possibile. Soltanto fare quello che gli va: «Onestà, amore, perdita, autoerotismo, orge… Ci piace divertirci e speriamo che questa energia passi attraverso la nostra musica. Speriamo che qualcuno possa sentirsi rappresentato da ciò che condividiamo». Non cercano di nascondersi dietro filtri o immagini costruite, si stanno solo mostrando al mondo così come sono. Anche deboli e infantili, sicuri che ci sia qualcun altro, da qualche parte, che possa provare le stesse cose, magari amplificate, magari no. Fa lo stesso. Gli chiedo di raccontami un loro sogno nascorso. Otis mi risponde che gli piacerebbe vivere in un piccolo cottage su un pezzo di terra da qualche parte nel mondo, mentre Royel che vorrebbe essere coinvolto nel cinema, «magari scrivere un anime o qualcosa di simile». Mi colpisce molto l’eterogeneità dei due immaginari. Mi lascia intravedere le differenze che li tengono uniti. Sono sempre stato della convinzione che siano le differenze a rendere solide le amicizie. O meglio, la complementarietà di queste ultime. Colmare i propri vuoti a vicenda sedimenta i rapporti più di qualsiasi altra cosa. Unire sogni così diversi tra loro li completa, li rende unici insieme. È un equilibrio delicato quello di un duo, che può crollare da un momento all’altro: non c’è una voce terza, si è faccia a faccia, sempre. È un lavoro costante su se stessi e sull’altro. Imporsi e farsi da parte, un filo sottilissimo che il divenire delle cose potrebbe spezzare rovinosamente in un attimo.

Avete mai temuto che il successo possa avere effetti negativi sulla vostra amicizia?
La nostra amicizia? No. Essendo insieme in questa avventura, ci sentiamo sempre più uniti. Cerchiamo di condividere tutte le emozioni che stanno arrivando, senza farci troppi problemi.

Vi sentite così uniti anche nel processo creativo?
Essendo la scrittura un momento di riflessione per noi, preferiamo scrivere da soli per poi unire le idee e collaborare in studio. È capitato anche di scrivere brani in due, ma di solito lavoriamo individualmente.

È il paradigma perfetto di come due personalità variegate, diverse tra loro, riescano a sposare un unico intento. La musica è il campo neutro, il luogo di incontro. Condividono tra loro prima di condividere con gli altri ed è forse questo il punto focale: si riconoscono nei loro brani e si rendono riconoscibili agli occhi degli estranei, solo con la musica. Quando chiedo di scegliere un luogo che li rappresenti, quello in cui si sentono davvero a proprio agio, la risposta viaggia ancora una volta in due direzioni diverse, come se la loro identità trovasse radici in luoghi lontani e distinti per poi rincontrarsi: «Tokyo, Giappone», per Royel, mentre Otis evoca immagini di un’infanzia più lontana: «La vecchia fattoria di mia zia e mio zio a Kiama (a sud di Sydney ndr.)». Ci sono i sentimenti forti a unirli. Quelli che solo un cuore giovane può sprigionare. Sentimenti che non sono ancora stati viziati dall’incedere del tempo. È centrale nei testi di Pratts & Pain questa voglia di combattere la velocità e il disincanto della società con emozioni palpitanti.

Gli domando se sono dei romantici come raccontano nei loro testi. «Romantici senza speranza», mi rispondono. E in effetti sembrerebbe questa la chiave che sblocca la nostra riflessione iniziale: la sensibilità, declinata in tutte le sue sfaccettature. Non appiattire la vita a una semplice corsa, un semplice arrivare. Ma godere di quello che c’è sul cammino, di tutto il bello e di tutto il brutto. Celebrare tutti gli impulsi e le passioni, senza alcuna remora. Sentirmi rassicurato vuol dire proprio questo: Royel e Otis mi parlano in maniera lucida e serena della propria vita, della mia vita. C’è spazio anche per le questioni più ispide. Viviamo con la costante paura del fallimento. Lo percepiamo come una catastrofe irreparabile. Forse dovremmo imparare a conviverci, a familiarizzarci. Nel bagno di un club, da qualche parte, ho letto una frase: “Vorrei essere un ribelle e fallire ogni giorno della mia vita”. Ho sempre pensato che fosse una specie di augurio. Come se chi l’avesse scritto sperasse di essere pronto a ricominciare, ogni giorno della sua vita, in ogni momento.

Il fallimento vi spaventa?
Terribilmente

Come avete familiarizzato con questa paura?
Cerchiamo di vivere giorno per giorno e continuare ad andare avanti senza fissarci obiettivi troppo rigidi. Non ci aspettiamo nulla, così tutto può essere una sorpresa.

Una cover che fareste qui, ora, senza pensarci troppo?
Into My Arms di Nick Cave, senza alcun dubbio.