Il vento settembrino tra gli arbusti di Cinecittà, il sole che fa capolino dalle nuvole sfrangiate e sbatte sulla superficie lucida delle impalcature, il rumore del popolo dello Spring Attitude che si sposta da uno stage all’altro, e poi una ragazza vestita di bianco che poco prima era sul palco per la sua esibizione e ora parla con qualcuno vicino al mixer. Questo è stato il mio primo incontro con Emma Nolde. Glielo voglio dire, comunque, che è l’unica in Italia a fare quella cosa bellissima che difficilmente riesco a verbalizzare o incasellare in un genere. Mi avvicino e glielo balbetto all’orecchio, ma in verità vorrei dirle tante altre cose, come ad esempio che deve avere il coraggio di non guardare i numeri e che le cose in un modo o nell’altro succedono quando il talento è così univocamente cristallino. Ma ho paura di ferirla, perché è come se stessi sottintendendo che i suoi numeri non sono abbastanza e allora resto in silenzio e la guardo solo per un attimo negli occhi. «Mi ricordo benissimo di quel che mi hai detto. Pensa che sono andata subito a dirlo a tutti ed erano super gasati. Sono sempre molto sorpresa se arrivano dei complimenti». «Ma un’artista come te ne riceverà di continuo?», gli domando. «Meno di quel che tu possa credere (ride, ndr). Mi tengo stretti quelli che mi sembrano più sinceri ma provo sempre a non pensare in modo intrusivo e nocivo al tema del successo», mi risponde lei.
Ed è proprio quando conclude questa frase che mi ricordo del suo intervento al TEDx di Verona, in cui mi sono infatuato perdutamente della sua umiltà. Nella prima parte dello speech diceva di non avere i numeri a supportarla e di non aver fatto nulla di rilevante dal suo punto di vista, lasciando trasparire un certo disagio in un sistema in cui quelle metriche sono l’unica cosa che conta. «Quando al TEDx dicevo di non avere numeri a supportarmi era la realtà ed è quel che credo ancora adesso. Ma il punto è che questo non è un problema per me, dato che ho la fortuna di essere una musicista oltre che una cantautrice, ciò significa che ci sono tanti modi per lavorare con la musica oltre ai miei album. Ad esempio mi piacerebbe aumentare sempre più il numero di album prodotti per altri, perché mettersi a disposizione in tal senso è qualcosa che mi gratifica molto e paradossalmente mi rende più libera».
Cosa intendi dire?
Lavorare per gli altri mi fa pensare meno ed agire di più.
Quindi tu non guardi mai i numeri?
Mai. Ogni tanto qualcuno mi fa notare una crescita ma fortunatamente è qualcosa di lontano ed astratto.
Cosa ti gratifica, invece?
Vorrei arrivare un giorno a poter fare un altro TEDx e dire che sono riuscita a produrre un album per un artista internazionale fighissimo. Ad oggi non ho ancora un archivio così ampio ma sto lavorando per incrementarlo.
Ho la sensazione che non lo diresti mai, che hai fatto successo. Sei così umile che quasi non sembri una artista contemporanea.
Hai ragione, forse non lo farei mai un TEDx di quel tipo, cancella la risposta (ride, ovviamente non cancello nulla perché è questo il superpotere di Emma Nolde. È la sua risata, la sua distensione, il suo saper stare in questo mondo di narcisisti accettando di poter essere una coprotagonista il cui ruolo è cruciale per l’evoluzione della storia ndr.).
Mi parlavi di libertà quando lavori per gli altri, ma nel tuo nuovo disco (NUOVOSPAZIOTEMPO ndr.) sento comunque una estrema eterogeneità di soluzioni sonore. Come bilanci la tua necessità di esplorare nuove direzioni musicali con il mantenimento della tua identità artistica?
È un equilibrio sottile perché la sperimentazione secondo me deve sempre combaciare con la propria identità e col fatto che poi uno debba metterci la faccia.
Quindi i tuoi brani cambiano pelle mille volte, immagino.
Sì, assolutamente. Le cose che escono a mio nome sono frutto di sperimentazione ma molto spesso anche in questo disco mi sono ritrovata a scartare tanto materiale e a riportare i brani ad una dimensione più spoglia. Ad esempio tanti brani che erano molto elettronici poi alla fine sono stati ri-registrati utilizzando la formula con cui poi andiamo live, ossia violoncello, sassofono, chitarra, pianoforte e batteria.
Anche Thom Yorke in una intervista diceva che di ogni brano scritto ha almeno due o tre versioni prodotte in modo completamente diverso. Ma Emma mi spiega che nel suo caso la produzione non è questione di make-up ma un punto di partenza alternativo per arrivare a nuove soluzioni. Nella risposta che mi ha dato c’è la sua formula segreta di scrittura.
È un giro largo quello della sperimentazione ma secondo me ne vale sempre la pena. A volte scrivo certe melodie che sarebbero potute nascere solo da suggestioni sonore più sperimentali, anziché dal piano e voce o chitarra e voce. Poi però, una volta arrivati a quel risultato di scrittura, spesso è una buona idea togliere nuovamente il superfluo e ri-arrangiare il brano nel modo che sento più mio.
Nella tua musica sento sempre una certa propensione al racconto di tutte quelle cose che non si possono toccare. Che ruolo ha l’intangibile e la spiritualità nella tua vita e nelle tue canzoni?
C’è questo libro che ho letto che si chiama Le non cose (di Byung-chul Han ndr.) che affronta proprio il tema del non toccare e dice che il tatto è il senso del possesso e di tutto quello che esiste, mentre ciò che non si tocca rientra più nella sfera di quello che tu hai giustamente definito “spiritualità”. Parafrasando l’autore dice che la realtà del tangibile rappresentata del tatto inibisce l’immaginazione e io sono molto d’accordo. Nel mio piccolo ho notato che il contatto a volte mi accende meno del non contatto: ad esempio ho avuto una lunga relazione a distanza il cui il tatto era l’ultimo senso ad essere stimolato e a me questo ha infiammato molto di più. I viaggi di quel tipo poi fanno anche nascere le canzoni – quasi tutte le canzoni se ci pensi contengono quelle cose che non si toccano o non si dicono.
Ti crea più disagio non poter toccare o più eccitazione il risultato che questa condizione genera nei tuoi lavori?
È un mix molto strano. Come dici tu ho desiderio di toccare ma se non tocco scrivo di più. È questa instabilità che si viene a creare che compone la pasta di cui sono fatta.
E poi c’è il tema della lentezza, che può sfociare nella noia. Oggi la lentezza è percepita come vuoto, che a sua volta è sinonimo di mancanza. Credo invece che darsi tempo sia il modo più efficace per non perderlo, il tempo. E sapersi ascoltare senza fretta è il reale momento in cui si regolano i propri equilibri col mondo che ci circonda, ma tutto questo è un po’ anacronistico, lo riconosco. Tu, se ho letto bene tra le righe, ne parli in Pianopiano, è così?
Quel brano nasce dal dialogo buche ho con i miei amici in cui ci si ripete e ricorda di andare piano. Nel ritornello esplodono proprio quelle voci che mi ricordano questo dialogo tra noi ed è emblematico come il tono di voce quasi a ridosso dell’urlo sveli il fatto che noi non siamo a nostro agio pienamente in quella condizione, altrimenti ce lo sussurreremmo, ma forse come dicevi tu è frutto dell’anacronistico che c’è tra questa dilatazione dei tempi e i tempi che stiamo vivendo.
Quindi per te è una sorta di auto-imposizione?
Sì, va contro il mio istinto che mi spingerebbe a velocizzare, mentre io chiedo alla mia testa ed al mio corpo di rallentare. Non sono brava a mettere in pratica questo mantra, ma quelle urla sono lì a dire: “io voglio che sia così”. Avere il coraggio di fare le cose alla velocità opposta rispetto agli altri è davvero una sorta di missione.
Da sempre esistono due componenti che portano un artista a raggiungere obiettivi importanti: il talento e la determinazione. Qual è la tua composizione percentuale di talento e di determinazione?
Non ho un gran talento nello scrivere canzoni – ci metto tantissimo a scrivere, e non mi sono mai scesi dal cielo i miei brani, a differenza di gente come Lady Gaga o altri che hanno una ispirazione vulcanica e scrivono canzoni in cinque minuti. Credo però di avere un talento nell’imparare gli strumenti che mi ha sempre caratterizzato fin da bambina. Quindi un cinquanta per cento di talento e un cinquanta per cento di determinazione, perché se fossi integralmente composta di talento forse farei la musicista per qualcuno o forse farei parte di una cover band. Preferisco avere questa struttura eterogenea che mi permette di bilanciare tutto.
Come è nata la collaborazione con Niccolò Fabi?
Se scrivo in italiano è grazie a Una somma di piccole cose e dunque grazie a Niccolò Fabi. Dopo un concerto al Monk mi chiese di scrivere un brano assieme e ora è finalmente realtà. Mi sembra così strano che alla fine sia successo davvero.
Che poi Punto di vista è il mio brano preferito del tuo disco.
Sono felice che sia quella che hai preferito perché è anche una delle mie preferite. È un brano importante anche per il modo in cui l’abbiamo scritta: è stata una genesi lunga perché anche lui mi racconta che per scrivere i suoi brani ci mette molto tempo. Abbiamo parlato per un bel po’ di questa persona di cui io volevo tanto parlare in un pezzo e lui voleva prendere le sue difese per difenderlo. Io nella canzone dico che questo mio amico non dovrebbe aver paura di ciò che invece lo terrorizza e invece Niccolò nella sua strofa parla delle ragioni per cui invece è legittimo essere spaventati come lui. Avrebbe potuto seguire il mio racconto e invece ha creato un contraddittorio che secondo me rende il brano molto più interessante.
Cosa potrei trovare nel Daily Mix Spotify di Emma Nolde?
Sicuramente tra gli italiani ti dico Niccolò Fabi, i Subsonica, Cremonini e Brunori Sas, mentre tra gli internazionali troveresti i Radiohead, i The Dø, i Sigur Rós, Little Simz e poi io amo i Coldplay sia quelli dei primi dischi che i più nuovi.
A quel punto le dico che potrebbe essere il mio mix, fatta eccezione per i Coldplay – che tolti un paio di lavori (Ghost Stories ed Everyday Life) non mi sono più piaciuti ad un certo punto della loro carriera e lei allora scoppia a ridere e a ripetere «lo sapevo, lo sapevo». È in questi momenti che si evince la bellezza di Emma Nolde, che è una ragazza che prende la musica sul serio ma che ha una forte ironia (a tratti autoironia) che suscita un fascino incredibile su di me. Perché ne è pieno il mondo di gente piena di sè, e i restanti sono praticamente tutti dei falsi umili che vogliono conquistarsi il Paradiso a suon di beffe inflitte al mondo esterno con quelle dote innata di mimica facciale degna del miglior Robert De Niro. E poi resta una manciata di persone, belle e rare come lei. Riallacciandomi alla sua menzione ai Sigur Rós le racconto di quando mi sono ritrovato a piangere come un bambino durante un loro concerto e allora le faccio l’ultima domanda: qual è stata l’ultima cosa che l’ha emozionata. «A me ha emozionato tantissimo di recente una poesia di Marco Balzano contenuta nel libro Nature Umane. Mi hanno regalato questo libro alla fine di un concerto e quando l’ho letto ho trovato tra le pagine questa perla incredibilmente bella. E poi anche Pomodori verdi fritti (alla fermata del treno), un film che ho visto con mia madre e mi ha straziato. Non credevo potesse struggermi a tal punto da farmi piangere quattro volte durante la visione. Questo film ha toccato le corde della mia anima e me lo porterò dentro per sempre».