Poco fa ho scritto ad un mio amico nato ad inizio anni Settanta che Songs Of A Lost World – il nuovo album dei Cure – potrebbe serenamente essere sul podio dei più belli della loro discografia. Mi ha risposto: “Mi ero ripromesso di ascoltarlo stasera, con un buon sigaro e una grappa. Non mi sorprende che possa essere un capolavoro e credo non sorprenda neanche te”. Ho risposto “No, ovvio” ma ho mentito due volte: quando ho scritto “No” ma soprattutto quando ho scritto “ovvio”, perché in realtà un disco scritto alla soglia dei settant’anni poteva essere stanco e macchiettistico – tenuto conto che la musica dei Cure, anche quella più eterna, tende inevitabilmente ad essere legata a doppio noto a degli stilemi che appartengono ad un decennio che, musicalmente parlando, è a dir poco antitetico rispetto a quello che stiamo vivendo.
Non è così “ovvio”, come ho bugiardamente scritto io, che esca un compendio in otto atti così sofisticato e nel contempo fedele a quel magnifico costrutto che Robert Smith ha definito con anni di sedimentazione musicale ed umana. Poteva essere un disco brutto in stile Cure, un surrogato, insomma, oppure poteva essere un disco di rottura rischiando di rompere solo le scatole ed il legame con gli aficionados della band britannica. E invece è magicamente, semplicemente, un grande e bellissimo disco dei Cure. E lo so che un bravo scrittore non usa mai tanti avverbi – Stephen King nel suo saggio On Writing li considera il male assoluto – e nemmeno troppi aggettivi, ma (attenti, arriva l’avverbio) francamente, ciò che mi preme trasmettere è la grandezza e la reverenza che questo disco merita. Ci sono richiami alla palette sonora di Disintegration (il loro miglior disco) e ci sono dei tratti che ci riportano nel marciume distorto di Pornography (il loro secondo miglior disco) e ci sono tutte quelle cose che potevano risultare forzate ma che invece passano nelle mie orecchie lisce come l’olio.
Mi riferisco alle intro dei brani lunghissime e dilatate, senza griglie o strutture, che si dispiegano senza mai farti dire “ecco, ora comincia a cantare” oppure facendotelo dire tre o quattro volte senza che poi ciò avvenga. C’è l’epicità di And Nothing Is Forever, le chitarre col chorus ed il pizzicato di Warsong che per un attimo ci immerge dentro Lullaby, e c’è la stortura di Drone:Nodrone che è il punto alto tra i punti alti di un disco che commuove proprio perché non ha mai cali, da nessun punto di vista. È complicato esprimersi dopo così pochi ascolti, per giunta ravvicinati, ma secondo me siamo nella sfera del capolavoro e dunque le remore che nutrivo sul disco dei Cure che esce nella notte di Halloween, sono rientrate e se la carriera in studio dei Cure dovesse proprio finire, mi piacerebbe fosse con Songs Of A Lost World e con un brano di dieci minuti e ventitré secondi che si chiama Endsong.