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Il mondo interiore di Andrea Cecchi

I Big Jim di Andrea Cecchi sono stati gli strumenti musicali, i dischi dei cantautori italiani e i martelli di “Another Brick in the Wall” ma cos’è che muove la sua anima?

Mi sono imbattuto in un TEDx di tredici anni fa in cui Paolo Sorrentino diceva che uno dei più grossi attentati alla nascita di nuovi mondi creati dai bambini risieda nel fatto che i Big Jim sono stati messi fuori produzione. Perché quando si è annoiati del mondo là fuori si inizia a volerne costruire uno dentro. Ed è proprio nel mondo interiore di Andrea Cecchi che vorrei provare ad entrare. I suoi Big Jim sono stati gli strumenti musicali, i dischi dei cantautori italiani e i martelli di Another Brick in the Wall ma cos’è che muove la sua anima? Ho provato a capirlo nella nostra prima chiacchierata.

Qual è il tuo primo ricordo legato alla musica?
Il mio primo ricordo riguarda la musica che sentivo risuonare per la città quando mio nonno mi portava a fare le passeggiate. All’epoca si sentivano ancora molto gli stornelli in vernacolo, ma anche il liscio di Casadei.

I tuoi riferimenti spaziano da Dalla a Battisti, dai Bee Gees ai New Trolls. Credi che avere un ventaglio così ampio da cui raccogliere abbia sedimentato le fondamenta da cui nasce Eleven oppure col passare degli anni tendi ad essere sempre meno influenzato dalla musica che ascolti?
Questi sono soltanto i riferimenti legati ai ricordi della fine degli anni Settanta, cioè i primi ascolti “attivi” della musica che andavo a ricercare. Ma ho anche consumato il giradischi mettendo senza sosta “La voce del padrone” di Battiato, e ho avuto la fortuna di vivere tutte le meravigliose hit degli anni Ottanta, diventate eterne. Gli artisti e le band che ho ascoltato con grande passione ed emozione sono tantissimi, diverse centinaia. Può darsi che a livello inconscio qualcosa di tutti loro sia entrato in me e sia riemerso quando ho avuto l’opportunità di comporre le mie canzoni. Più probabilmente però ciascuno di noi ha un proprio stile innato, quello nel quale gli viene più naturale esprimersi, e non è detto che vi sia somiglianza tra le canzoni che si ama ascoltare e quelle che scriviamo per raccontarci agli altri. Il mio stile tende al mondo british ad esempio, ma ho trascorso molto più tempo ad ascoltare musica cubana che inglese, eppure non ho mai scritto una canzone in stile salsa. La funzione di ascoltare e quella di comporre non si sovrappongono probabilmente.

Perché la scelta di scrivere in inglese, anche se sei pisano?
Non è una scelta, è una spinta interiore, se non una necessità. Quasi sempre le mie canzoni nascono da melodie che mi rimbalzano in testa, già finite, alle quali poi devo cercare di dare un testo e un significato. Ma il processo compositivo comincia dalla musica. Per arrivare a definire la metrica e le parole devo fare un lavoro di mondatura, come se il cantato esistesse già ma dovessi ripulirlo dalle scorie fino a renderlo intelligibile. La lingua inglese consente la creazione di immagini con l’utilizzo di pochissime, brevi parole, e anche a livello metrico si addice meglio alle strutture delle mie canzoni. 

Ci hai spiegato che il videoclip di Another Brick in the Wall dei Pink Floyd è stato una epifania per te.
Avevo sei anni, mi ricordo bene la marcia dei martelli con passo sincronizzato, militare. Non avevo idea di cosa significassero ma avevano un effetto ipnotico su di me. Chiaramente ero troppo piccolo per avere consapevolezza di quello che stavo ascoltando, o dell’importanza che avrebbe avuto nella storia della musica. Ho avuto poi modo da grande di approfondire i significati e di godermi quel disco più di ogni altro. Del progetto The Wall hanno fatto parte i migliori musicisti al mondo, il produttore Bob Ezrin si è occupato di tessere trama che ha legato una canzone all’altra, e Michael Kamen ha realizzato le orchestrazioni. Non si tratta solo di un disco, ma di un’opera totale in cui ogni dettaglio si incastra alla perfezione come in un perfetto lavoro di intarsio. Le melodie, la progressione degli accordi, gli arrangiamenti, il potere evocativo dei testi, le rime, le metriche, gli assoli… tutto è impeccabile e scenografico. Non a caso ne venne realizzato anche un film, diretto da Alan Parker. Nel complesso credo che sia il lavoro più completo della storia.

Quando scrivi, quanto c’è di te e quanto del mondo che ti circonda?
Quando scrivo sono in uno stato di sogno ad occhi aperti. Non descrivo tanto le situazioni reali che mi capita di osservare nella quotidianità quanto le emozioni che mi nascono dentro, spesso sotto forma di incursioni di musiche che arrivano inaspettate quando dormo, o quando sono perso nei miei pensieri. Quindi più che racconti lucidi, le mie canzoni sono quadri dipinti con pennellate oniriche.

Spesso si dice che ogni artista abbia una ferita che lo guida e lo ispira. C’è un sentimento o un pensiero ricorrente che senti di voler esprimere, brano dopo brano?
Non ci ho mai pensato a dire il vero, perché non sento di essere io l’attore protagonista dei miei racconti. Sento piuttosto di fare da tramite, diciamo da traduttore, tra la musica che mi nasce spontanea in testa, e le orecchie delle persone che la ascoltano.

In Eleven i tuoi pezzi alternano momenti spesso molto diversi tra loro, cosa inusuale oggigiorno. Come lavori alla diversificazione del brano sia dal punto di vista dell’arrangiamento che dal punto di vista del sound?
Anche in questo caso domina l’istinto. Per natura tendo ad annoiarmi facilmente e dalla musica mi aspetto sempre qualche elemento di sorpresa. Cerco di dare agli altri, in termini di variazioni e arrangiamenti, quello che mi piacerebbe sentire mettendomi nei panni dell’ascoltatore. È chiaro che ci debba essere una certa conoscenza tecnica dell’arrangiamento e dell’armonia, ma non compongo mai applicando troppo la ragione. Mi lascio guidare dal gusto. La sfida è quella di rendere cantabili tutti i brani, anche quelli che hanno strutture complesse. Ma più che applicare le regole dell’armonia preferisco ricercare la sinestesia.

A tal proposito, nel tuo processo creativo, come bilanci il desiderio di innovare e sperimentare con il bisogno di rimanere fedele a te stesso?
Prima di pubblicare una canzone in genere si ascolta quello che si è fatto, migliaia di volte. E ad ogni ascolto si ha la sensazione di non aver fatto il massimo. Poi arriva un momento in cui bisogna fidarsi del proprio istinto, e soprattutto avere la consapevolezza che tutte le ore di lavoro in qualche modo, anche misterioso, verranno percepite da chi ascolta. Raccontare e spiegare la mole di lavoro che c’è dietro a ogni secondo di una canzone sarebbe impossibile. Ad ogni modo, la priorità cerco di darla alla coerenza. La sperimentazione sonora fa sempre parte del processo creativo, però è l’ascolto che determina la scelta finale. Non mi piace sperimentare solo per il gusto di farlo, ogni sonorità o strumento deve avere una ragione specifica, soprattutto deve essere funzionale.

Molti artisti parlano di momenti di crisi o di blocchi creativi. Come affronti quei periodi in cui la musica sembra sfuggirti?
Sono una persona molto poco costante nella composizione di canzoni. C’è spesso la paura di aver già dato tutto il meglio di sé, di non potere più scrivere canzoni originali o interessanti. Però cerco di rimanere sereno, confidando nel fatto che qualche altra musica si presenterà di soppiatto nella mia testa quando meno me lo aspetterò.