Un feto percepisce le vibrazioni della voce materna in maniera amplificata rispetto a quelle di tutte le altre persone. Alla nascita riconosce quella voce, diventa l’unico vero rifugio in un mondo tutto nuovo che urla troppo forte. Ci piace pensare che sia questo l’input creativo che spinge Tyler, the Creator a farsi accompagnare dalla voce narrante della madre durante tutto il disco, o per lo meno che sia una scelta inconscia richiamante la natalità. Il primo vero fattore determinante di Chromakopia è proprio questo: il ritorno alle origini e alla dimensione introspettiva, come riparo, come luogo primordiale. È lampante la necessità di ricondurre una carriera artistica eclettica e incredibilmente imprevedibile al suo stato primo, quello dell’istinto, quello dell’impulso incontaminato da virtuosismi o filosofie. Dopo un solo ascolto, il getto di coscienza è così forte da confondere l’ascoltatore. Ha da dirci tante cose. Ha da dirsene, forse, molte di più. Si, perché a tratti si ha la sensazione di intromettersi in un dialogo tra l’autore e l’autore, fatto di insicurezze e forti dilemmi esistenziali irrisolti. Gli elementi evocativi sono diversi. I richiami a una spiritualità densa, slegata da canoni tradizionali, che strizza l’occhio alla tradizione zambiana, caricano di un’energia quasi affannosa alcuni passaggi.
Tyler, the Creator ci ribadisce l’intento di sfogarsi, di lasciar crollare le impalcature e spogliarsi definitivamente di fronte a tutti, come al momento della nascita. Il primo quartetto di brani da prendere in analisi (St. Chroma, Rah Tah Tah, Noid, Sticky) incarna a pieno questo spirito di liberazione. Tormentati e confusionari, i momenti di caos si alternano ad atmosfere distese. Urla, fa la voce grossa, poi sussurra, riprende fiato, rappa da manuale e poi ricomincia. Il minimo comune denominatore sono precisi intermezzi soul, rasenti al gospel, in cui i cori ci ricordano le radici profonde della black music di Tyler, the Creator, sempre fedele alle sonorità iconiche del genere. Ritroviamo gli stessi elementi classici in brani come Darling I e Take Your Mask Off, arrangiamenti jazz e tipiche influenze R&B si incastrano precisi in due pezzi che ci ricordano l’hip hop più tenace, quello dei Novanta. Predominante è l’elemento lirico, il disco riprende da Hey Jane e assume le sembianze di una vero e proprio scambio epistolare scritto a mano. Racconta di una gravidanza inaspettata, snocciola l’aspetto psicologico della vicenda con grande sensibilità, tatto, con profonda tenerezza. La varietà di genere e l’identità camaleontica di Chromakopia si palesano in brani come I Killed You, Judge Judy, Tomorrow, Like Him.
Gli elementi melodici spiazzano l’ascoltatore e alleggeriscono l’atmosfera già carica di elementi impattanti. Snelliscono l’ascolto e smorzano la sensazione di affanno, sono i tasselli giusti per ammorbidire un disco che, altrimenti, sarebbe un pugno dritto in faccia. Di quelli ben piazzati, nell’accezione positiva, se esiste, dell’espressione. La figura della madre è centrale nella narrazione, a giudizio di chi scrive. Il disco si compone di elementi analoghi a quelli dello sfogo di un figlio tornato a casa dopo tanto tempo. Racconta la sua vita, tutto quello che ha vissuto, tutte le persone che ha scelto di essere, le paure e le incertezze. Abbraccia con grande nostalgia una sensazione tipicamente puerile, quella del rivedere casa al ritorno da un lunghissimo viaggio. Chromakopia, nella sua essenza impulsiva e genuina, è tutto in questo concetto. È l’immagine di un ragazzo che riabbraccia le proprie radici e si spoglia del superfluo. È il gesto simbolico del mettersi a nudo, tra le braccia della madre, per ricordare il momento della nascita, per avvicinarsi il più possibile alla genesi di questa storia, alla vera essenza. Tyler, the Creator, dopo essere stato tante persone in una sola, ha ritrovato il suo io più intimo e Chromakopia è l’unica, vera, fotografia di questa riconciliazione che ci rimane tra le mani.