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“Iddu – L’ultimo padrino”, Elio Germano è l’unico a brillare

Il film su Messina Denaro con Elio Germano è un salto nel buio che, purtroppo, non ha portato alla luce. Forse i tempi non erano, e non sono, maturi per sondare a fondo questo personaggio?

I primi anni Duemila sono anni di apparente silenzio per il latitante Matteo Messina Denaro (Elio Germano) che dal 1993 era tra i boss mafiosi più ricercati del mondo. Un silenzio che è assordante quello che pervade i centoventidue minuti di Iddu – L’ultimo padrino, firmato da Fabio Grassadonia e Antonio Piazza (Salvo e Sicilian Ghost Story). Mille identità lo attraversano: conosciuto come U Siccu prima della latitanza, poi come Diabolik, successivamente firmandosi come Alessio, noi lo osserviamo quando decide di vestire i panni di Svetonio, un nome noto nella letteratura latina che rimanda all’antichità e suggerisce un’aura di erudizione. I registi si concentrano sul periodo in cui, con il suddetto alias, il boss di Cosa Nostra comunica tramite missive con Catello (Toni Servillo), suo padrino, personaggio frutto della fantasia, ma che vuole simbolicamente rappresentare l’ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino (condannato a sei anni per traffico di droga ma assolto dall’accusa di associazione mafiosa). Messina Denaro sta attraversando un periodo infernale, il padre al quale è sempre stato devoto è deceduto. Si sente perso e senza guida. Il suo fantasma lo perseguita, i sogni nei quali maneggia un’antica statua in bronzo (simbolico testimone del trasferimento di potere che da piccolo aveva ricevuto dal padre) lo destano nel cuore della notte.

Lo scambio dei pizzini sembra essere l’unico dinamismo generato dallo scorrere della pellicola. Il resto un grande fermo immagine. Il film resta in superficie. Troppo presto per cercare di calarsi nelle dinamiche e nella psiche di uno dei boss mafiosi più ricercati al mondo arrestato a inizio 2023 e deceduto poco più di un anno fa, infatti restiamo lontani, interdetti e confusi, illuminati soltanto dalle artificiali luci elettriche della casa in cui si nascondeva. La trama sembra costruita su una serie di istantanee slegate che puntano a raccontare molto senza addentrarsi mai, lasciando lo spettatore sospeso in una visione poco coesa. Immobile e sciapo (se non fosse per l’interpretazione magistrale di Elio Germano), Svetonio/Matteo non ha storicizzazione alle spalle per ricreare un periodo così delicato quanto difficile, se non il libro di Salvatore Magno edito nel 2008 (Lettere a Svetonio), dalle quali emerge il lato più intimo del latitante che si traduce in flusso di coscienza, in quanto il boss riempie i propri testi di citazioni, di considerazioni esistenziali concernenti affetti, sentimenti, riflessioni sul suo destino, le sue letture e la sua visione del mondo: “Se potessi ritornare indietro conseguirei la laurea senza margine di dubbio, non dico ciò perché avrei voluto un altro tipo di vita, no, io sono soddisfatto della vita che ho avuto e la rifarei, vorrei la laurea solo per me stesso e non per altro”. La ferita relativa agli affetti familiari è aperta e sanguina. Le forze dell’ordine tentano la strada del figlio che non ha mai voluto riconoscere. Anche qua il tutto risulta una forzatura, chi è quel bambino seduto per terra tra le alte piante di una spiaggia siciliana?

Sicuramente la similitudine che i registi volevano far emergere, facendo indossare alla presunta prole i tipici e riconoscibili occhiali del protagonista per alludere a una ricerca di sé, non funziona e risulta banale. Se il personaggio principale non regge all’ambizione dei registi, tutto il contorno rappresenta delle fondamenta che stanno per crollare: a partire da Toni Servillo, che sembra non riuscire a stare dentro la trama in maniera lineare, marito scansafatiche o ex politico tutto d’un pezzo? Mafioso o pentito? Oppure tutti e due? Mediocre anche la rabbia di Rita Mancuso (Daniela Marra) l’agente dei servizi segreti, quasi finta, tirata e forzata, tesa a rappresentare il cliché visto e rivisto della poliziotta sincera e vittima di un sistema ingiusto di cose dette e non dette. A loro discolpa, all’inizio del film, i registi ammettono “la realtà è solo un punto di partenza, non la destinazione” essendo consapevoli del rischio che avrebbero corso. Questo salto nel buio non ha portato alla luce. Insomma, i tempi non erano e non sono maturi per sondare questo personaggio, un fantasma che è ancora irraggiungibile. Pertanto, sembra che tutti vogliano rimettere insieme i pezzi, persino la sua convivente-amica vedova (Barbora Bobulova) cerca di aiutarlo a portare a compimento il grande puzzle della Sicilia, ma proprio sul finale viene smarrito l’elemento che avrebbe generato una chiara visione d’ insieme: il tassello finale.

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