Nei ricordi più nitidi che ho della mia infanzia c’è da sempre quello di una tradizione di famiglia: ogni volta che nel mio paesino arrivava il circo, mio padre si premurava di acquistarne i biglietti e portarmi a vederne lo spettacolo delle 17:45. Ricordo bene l’odore nauseabondo della plastica del tendone rosso, quello grasso del burro dei popcorn e quello secco della sabbia nell’arena. Più di tutto però, ricordo il senso di angoscia che mi percorreva: ero terrorizzata dal circo, ne odiavo i clown, non mi piacevano le fotografie con gli elefanti e le canzoncine distorte mi inquietavano. Non mi sono mai spiegata il perché di quel malessere, soltanto poi ho compreso che aveva a che fare con ciò che quel mondo rappresentava: i circensi erano diversi, pecore nere in un gregge di sole pecore bianche, incapaci di omologarsi alle norme socialmente imposte, consapevoli di essere guardati male da tutti gli altri. Consapevoli della loro condizione da fenomeni da baraccone, da freaks. Mi trasmettevano un forte senso di solitudine. A un certo punto sono cresciuta, il circo non è più venuto a trovarci e quell’appuntamento è andato a perdersi, così come il mio magone, e ho cominciato a rendermi conto che io e quegli “strambi” avevamo molte più cose in comune di quanto potessi pensare. Quando ho letto il titolo del nuovo album di Naska, The Freak Show, non c’è voluto molto a interpretarne il significato: in una scena musicale popolata da trapper e aspiranti pop star, lui è considerato “il principe del pop punk italiano”, l’unico che non si conforma al resto della massa.
«All’interno del disco, emerge il mio essere freak: passo da brani in cui si salta a destra e a sinistra al ritmo della batteria, a brani più malinconici – mi racconta, lui a Milano, io in un bar della Capitale – mi ritengo un freak perché all’interno di una classifica capitanata da un genere musicale, io continuo a portarne avanti un altro da cinque anni che non è assolutamente in voga ma che sto facendo tornare nelle cuffiette dei ragazzi. Anche nella vita, in generale, vedo e conosco persone che, ai miei occhi, sembrano vivere bene la loro quotidianità, e questo mi porta a chiedermi perché io non riesca a stare bene, perché mi sento così strano». Sorrido a questa risposta e mi viene in mente una frase di Frida Kahlo – “Sono qui e sono strana proprio come te”. È una domanda che spesso mi pongo anch’io, io e chissà quante altre persone. «Me lo chiedo spesso, ma ormai non è più un problema: ho abbracciato questo mio modo di essere, accettarlo è l’unica maniera per gestirlo. Come dice anche il Cappellaio Matto di Alice nel paese delle meraviglie… tutti i migliori sono matti». Da questa citazione, cominciamo a parlare di cinema, e così arriviamo, inevitabilmente a parlare di The Freak Family, il corto animato che ha fatto da presentazione a questo nuovo lavoro. «Ho sempre fatto animazioni da un minuto o cinquanta secondi che facevo uscire su Instagram per la pubblicazione dei singoli, grazie a Pietro Cascavilla, il disegnatore dei cartoon. In previsione dell’uscita del nuovo album, avendo più tempo a disposizione, ho voluto fare le cose in grande, notando anche come, tra cartoni rappresentanti gli stereotipi della famiglia americana, mancasse la rappresentazione degli stereotipi familiari italiani in stile Simpson».
«The Freak Family è nato in un anno ma mi sono divertito, alla ricerca di citazioni, nella creazione dei personaggi ma soprattutto nel doppiarmi, era la prima volta che lo facevo. Ho cercato di parlare marchigiano il meno possibile, e mi è stata di grande aiuto Susan Bonotti, doppiatrice di Polly e direttrice del doppiaggio». E se all’interno della storia animata vediamo compravendite di anime, rappresentazioni di famiglie esageratamente disfunzionali, niente paura: si tratta unicamente di humour e critica profonda rivolta a un ipotetico Diego incapace di restare fedele a sé stesso e ai suoi principi. Nel disco, c’è anche il sequel di Horror, contenuta nel primo disco, Rebel; considerando che tra le due produzioni intercorrono due anni, mi viene spontaneo domandare come sia cambiato il ragazzo che cantava “E stai lontana da me, non andrà mai a finire bene” e cosa ha imparato sull’amore. «Non credo di esser cambiato troppo, anzi, credo di essere sempre la stessa persona. Anche se cresco, cresco di età, ma come dico in Pronto soccorso, resto comunque un ragazzino. In Horror 2 ho riportato proprio questa cosa qua, che nonostante io stia crescendo, la testa rimane sempre la stessa, gli errori che faccio rimangono gli stessi, la consapevolezza che in verità non stia crescendo, rimanendo sempre un po’ testa di cazzo. Ho voluto fare il seguito di Horror perché spesso mi viene detto che la dedicano, così ho voluto raccontarla in maniera diversa mantenendo e sottolineando l’aspetto della relazione tossica. Ho imparato però che i primi amori sono sempre più traumatici, e anche se le prime storie mi hanno reso un po’ più cinico, resto sempre e comunque innamorato dell’innamorarsi».
L’amore però non è l’unico tema di cui si parla in The Freak Show: viene raccontato un argomento che molto spesso è trattato come un tabù, quello della salute mentale. La vita di oggi è costantemente bersagliata da ansia e stress, per non parlare nello specifico dei più giovani, perseguitati da un’idea tossica di performance che porta a non sentirsi mai all’altezza. «Quando mi sento sopraffare, piango». E qui ci facciamo entrambi una risata che anticipa la risposta seria. «Piango, lo dico anche in Piccolo e in Pagliaccio, cercando di sfogarmi, ma più che altro, quando mi sento sopraffare da tutto quello che mi circonda, io la butto in musica. Mi chiudo in studio e scrivo. Sono come Luigi Tenco, quando sono triste scrivo, quando sono preso bene, esco a far serata. Scrivere, per me, è come una seduta dallo psicologo, di cui ho paura… perché quando sto male, tendo a scrivere e a comporre le canzoni più belle; la terapia potrebbe aiutarmi a gestire meglio le mie ansie, le mie paturnie e i miei traumi, ma poi non riuscirei più a metterli in musica, non mi sarebbero più di ispirazione. La musica resta la cura, ma, in Piccolo racconto proprio di quelle notti in cui i miei timori prendono il sopravvento e chiedo a chi mi è vicino di non lasciarmi solo. L’ho scritta perché spero che aiuti le persone che, magari, si trovano a vivere la stessa situazione e, se non hanno come me la musica come valvola di sfogo, gli consiglio di andare da uno psicologo che può aiutarli a gestire meglio queste cose». Questa empatia caratterizza il rapporto complice e speciale che Naska crea con il suo pubblico. «Non mi sento diverso dal pubblico».
«Ascolto le canzoni come se non fossero le mie ma piuttosto, come se fosse per qualcun altro che prova e sente le stesse cose che sento io, facendoci sentire più vicini. In Pagliaccio racconto della dualità della maschera che, a volte, sono un po’ costretto a indossare per salire sul palco nonostante il panico o le preoccupazioni; è una sorta di ringraziamento per il pubblico perché, quando provo queste emozioni qui, lì per lì, mi costringo a dimenticarmene, ma mentre mi esibisco me ne dimentico veramente, grazie alle persone che sono lì. Questo contatto mi fa sentire meno solo». E se potesse assegnare a ogni traccia, un personaggio freak risponde che «ovviamente, Pagliaccio il pagliaccio ma in stile Pavarotti, a cui Arlecchino ruba la ragazza e nonostante ciò, non può preoccuparsene perché deve indossare la giubba e la faccia infarinata per tenere il suo spettacolo. A Piccolo sta l’uomo forzuto, che in realtà in casa è grande fuori e piccolo dentro. Mi diverto è il giocoliere, mentre Berlino è l’ammaestratore di leoni. Non me lo merito è decisamente la coppia lanciatrice di pugnali. A Horror 2 lascerei interpretare le gemelle siamesi, che hanno due teste ma due mondi diversi, e alla Mamma di ***, la donna barbuta». Dopo questa risposta, io e Diego torniamo alle nostre vite, ma non posso fare a meno di pensare che essere dei freaks non è uno svantaggio, anzi, è la cosa migliore che possa capitare.