Una volta un uomo mi ha detto che quelli che offre la musica sono solo “sognetti”. Che poi le luci si spengono, gli addetti ai lavori tirano giù le impalcature e quel che resta è solo qualche milione di pixel impilati nella memoria di uno smartphone, una marea di bicchieri da smaltire, oppure, se si ha il privilegio di scrivere di musica, un pass malconcio da appendere a qualche specie di quadretto in camera – io non lo so perché siamo tutti così ossessionati dai pass. Ad ogni modo quel signore si sbagliava perché durante le serate dello Spring Attitude Festival io ho visto coi miei occhi qualcosa che è ancora qui con me, ora, nel mio studio, mentre riordino le idee e le valigie. Sarà con me domani e per molti giorni avanti. Ed era a maggior ragione lì con me ieri mattina, nella sala delle colazioni del piccolo hotel da cui stavo abbozzando le prime parole di questo articolo. E mentre provavo a capire se fosse meglio uno spicchio di crostata alla confettura di albicocche oppure un po’ di bacon con le uova mi sono reso conto che senza la musica non sono niente e che la musica live, seppur con alti e bassi, alla fine non mi stanca mai veramente. Non ce n’è mai a sufficienza, anche se in una settimana ce ne sono quattro o cinque in agenda.
Credo sia innegabile che un set di Cosmo come quello che abbiamo vissuto, ad esempio, ti resti sulla pelle. Non se ne è andato via nelle condutture idrauliche della prima doccia dopo il live perché certe cose trascendono i concetti precostituiti di spazio e tempo. Ed è altrettanto vero che uno show di Mace non è affatto un “sognetto”. Io ad esempio alla fine di momenti così caleidoscopici, eclettici e colorati di musica diversa, mi porto sempre dentro qualche insegnamento. Ed è successo anche dopo l’incontro con la techno di Whitemary: perché assistere ad un suo live è quasi come leggere decine di libri tutti assieme riscoprendosi felici, un accordo alla volta, una canzone dopo l’altra. È come imparare una nuova lingua (quella dell’elettronica) e in un’ora potresti eguagliare uno slancio di duecento o trecento giorni su Duolingo. Vale però lo stesso per quelli più intimi – tipo Irbis o più adrenalinici come Naska (Spring Attitude Extra). È una specie di confessione, credo io, quella che si manifesta davanti ai ferventi discepoli della musica in notti come quelle che ho vissuto questo weekend.
Tutta quella magia sa essere intima ma pure manifesto collettivo e la gente da dentro le sue felpe immagazzina finché ne ha, per poi evangelizzare. E lo so che magari state pensando che sia di parte. Con Cosmo, ad esempio, a causa del fatto che quella benedetta fragilità della provincia la conosco proprio bene. Oppure con Mace o Emma Nolde, perché probabilmente tanti dischi che li hanno costruiti come artisti hanno costruito anche me come uomo. Ma il fatto è che l’unico modo possibile per convincervi del fatto che nulla di ciò che leggerete tra queste righe ma soprattutto in quegli spazi bianchi che le separano (e spero vi invitino a immaginare ciò che purtroppo non riesco a verbalizzare) è in fin dei conti provare voi stessi, venendo e scegliendo la vita, come diceva quel monologo all’inizio del film. Che poi in quel caso era ironico, ma io ve lo sto chiedendo con tutta la serietà di cui posso, perché ce lo siamo detti più volte che la musica non è solo rumore di fondo, no? Ecco, allora dovete venire a toccare con mano qualcosa che sembra ripreso da un obiettivo con focale corta, in cui nessun campo si sfoca e tutto appare nitido ed in primo piano, specialmente la musica.
Poco sopra ho scritto “ferventi discepoli”, ma avviso ai naviganti: esibizioni come quella dei The Blaze o dei Kiasmos di Ólafur Arnalds e Janus Rasmussen, che ci crediate o meno, non sono una riunione di condominio, una storiella che ci raccontiamo noi amanti della musica per palati raffinati, al contrario è una roba di tutti. È roba tua, ed è roba mia. È probabile che per alcuni un artista come Sama’ Abdulhadi (deejay e producer palestinese) possa risultare indigesta, specie se si vive la musica in modo leggero, ma se si sceglie di partecipare ad un live (che non è affatto semplicemente un dj set) e ascoltare ogni passaggio con le orecchie giuste, si capisce subito che è forse proprio quel brivido che ci passa attraverso mentre il disco si fa scorticare dalla puntina che rende tutto così universale e magico. Quando ad esempio la coda verde acido di Mace ondeggia nell’aria o quando Francesco Motta scende tra la gente quasi come a dire “io non esisto se non ci tocchiamo”, beh io ho la sensazione che vengano su palazzi architettonici davanti a me, che Cinecittà, come suo solito, si rivesta e ridisegni le proprie mura perimetrali.
Un momento prima sei a Berlino, un attimo dopo a Nuova Delhi, poi sulla Striscia e improvvisamente tutte le culture ti fluiscono dentro. E io le riesco ancora a vedere, qui davanti a me tutte queste cose, e ti giuro che era solo gin tonic quello che mi hanno versato nel bicchiere. Se ho mandato quei messaggi che normalmente non avrei la tenacia di mandare, o quelle candidature che una volta su cento possono cambiarti davvero la vita, tanto lo devo a concerti come quelli di Spring Attitude. Ecco perché bisogna essere grati alla musica, alle persone che la sognano, ai pazzi che la selezionano con cura e la proteggono anche quando si ha l’impressione di lottare contro i mulini a vento. Per questo e per altri seicento motivi quell’uomo che mi parlava di sognetti ha torto marcio. Ho le prove, e se è l’ignoranza che stiamo uccidendo, Cinecittà, durante lo Spring Attitude, è senz’altro il luogo del delitto.