The Brutalist, terzo lungometraggio dell’ex attore Brady Corbet, è stato il colpo di fulmine dell’o81esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Non sempre presente nelle liste dei titoli più attesi del festival, il film in questione è attualmente considerato il favorito per il Leone d’Oro, in seguito all’entusiasmo scatenato dalle proiezioni veneziane. Lungo ben tre ore e venticinque minuti, d’ambientazione storica e in formato VistaVision, The Brutalist è già stato paragonato a opere quali Il Petroliere o addirittura Il Padrino, grazie all’idea di cinema larger than life che suggerisce. Fin dall’esordio, avvenuto nel 2015 con The Childhood of a Leader, Corbet è animato dall’intento di ricreare quel cinema epico e magniloquente, intimamente novecentesco, che nei decenni passati ha raccontato la storia degli Stati Uniti. La trama di The Brutalist, che copre un arco di circa trent’anni, segue la storia di Laszlo Toth (Adrien Brody), un architetto ebreo ungherese che, dopo essere sopravvissuto all’Olocausto, emigra negli Stati Uniti. Toth, nel nuovo continente, è costretto a svolgere i lavori più umili, vivendo in povertà e senza la possibilità di sapere se e quando rivedrà l’amata moglie Erzsebet (Felicity Jones), rimasta bloccata in Europa insieme alla nipote Zsofia (Raffey Cassidy).
Le cose cambiano quando Toth si imbatte nella facoltosa famiglia Van Buren: incaricato dal rampollo Harry Lee (Joe Alwyn) di ristrutturare una libreria, sarà in seguito assunto dal patriarca Harrison Lee (Guy Pearce) per costruire una vera e propria città. Harrison Lee Van Buren, inizialmente, disdegna il lavoro di Toth, ma cambia idea quando scopre che lo stile dell’architetto, formatosi in patria alla Bauhaus, è considerato avanguardistico: Toth è infatti un esponente della corrente del Brutalismo, che negli anni Cinquanta ha portato nell’architettura il gusto per il cemento, l’acciaio e le linee industriali. Harrison, all’inizio della collaborazione, copre di complimenti e stima l’architetto, al quale offre la possibilità di esprimere su larghissima scala la propria visione artistica: con il procedere degli eventi, tuttavia, emerge in modo sempre più violento la natura del rapporto tra i due uomini, caratterizzato da un feroce squilibrio di potere in favore del magnate. La relazione tra Toth e Van Buren è l’esempio più evidente dello sfruttamento, da parte dei grandi capitalisti statunitensi, degli immigrati europei: apparentemente lusingati, gli stranieri sono in realtà usati per far acquisire ai magnati gusto e cultura, senza che avvenga mai un’effettiva integrazione nel tessuto sociale. Questo conflitto, segnato da un senso di inferiorità della classe dominante statunitense nei confronti della cultura europea, non si limita solo all’architettura.
In una prospettiva metacinematografica, è facile vedere in Van Buren la figura del produttore hollywoodiano, interessato ad appropriarsi del genio altrui per acquisire ricchezza e prestigio. Toth, a sua volta, rappresenta la miriade di registi e artisti europei che, durante e dopo la Seconda Guerra mondiale, si sono spostati negli Stati Uniti, in alcuni casi per scelta ma soprattutto per necessità. L’artista, che sia un architetto o un regista, lotta costantemente con il committente per lasciare nell’opera che sta creando una traccia personale: l’arte, secondo Toth e secondo Corbet, è infatti la più alta e grandiosa espressione dell’individualità, che le brutali logiche del mercato tendono a ingabbiare. Il vero brutalista del film è proprio Van Buren, che arriverà a umiliare Toth, costantemente ridotto alla condizione di mendicante, nella mente e nel corpo; la creazione artistica dell’architetto, tuttavia, è più grande delle circostanze che l’hanno prodotta, ed è destinata a rimanere nella storia. Caratterizzato da una regia sontuosa, perfettamente coerente con il messaggio del film, The Brutalist è un’opera imponente, collettiva e al tempo stesso fortemente personale, che deve moltissimo alle toccanti interpretazioni di un cast in stato di grazia.