Ad aprire fuori concorso l’81esima Mostra cinematografica di Venezia è stato Tim Burton con Beetlejuice Beetlejuice, sequel del celebre film da lui stesso diretto nel 1988, il cui successo lo ha reso famoso in tutto il mondo, convincendo la Warner Bros ad affidargli la regia di Batman (1989). A trentasei anni di distanza dall’ultima volta, il regista torna dunque ad ampliare l’universo narrativo di uno dei personaggi più iconici della sua filmografia (come testimoniato anche dai vari cosplayer di Beetlejuice presenti al Lido per l’anteprima del film), aggiungendo alle star del titolo originale (su tutte i sempre ottimi Michael Keaton e Winona Ryder) attori di grande richiamo come Willem Dafoe (nella trascurabile parte di un poliziotto dell’aldilà), Monica Bellucci (nei panni di Dolores, vero villain del film) e Jenna Ortega, fresca del grande successo di Mercoledì e volto della Gen Z ideale per interpretare Astrid, la giovane figlia incompresa di Lydia. Esattamente come la pellicola del 1988, anche Beetlejuice Beetlejuice presenta una struttura costruita su due pilastri fondamentali.
Il primo consiste nel grande equilibrio tra la componente gotica e quella comica: gli stilemi del genere horror risultano sempre di matrice espressionista, con contaminazioni (che culminano in esplicite citazioni) del cinema di Roger Corman e Mario Bava, entrambi registi che hanno influenzato notevolmente lo stile di Burton; a stemperare una tensione palpabile, incrementata da sequenze macabre, è ancora una volta la comicità, forse meno demenziale e più sofisticata rispetto al primo film, ma comunque in grado di divertire qualsiasi tipo di spettatore, rendendo il prodotto fruibile anche al pubblico più giovane, perfettamente capace di identificarsi nel coming of age di Astrid. Il secondo pilastro del film consiste invece nella sua forte componente metacinematografica. Se in Beetljuice – Spiritello porcello Tim Burton rifletteva sulla forza del mezzo cinematografico, che fungeva addirittura da ponte di collegamento tra i vivi e i morti (a vedere gli spiriti dei defunti era proprio Lydia, munita di macchina fotografica, strumento nato per catturare il reale che finiva per mostrare il soprannaturale, risultando quindi il perfetto alter ego di un regista munito di macchina da presa), in Beetlejuice Beelejuice la riflessione si sposta invece sulla debolezza del cinema nel mondo contemporaneo.
L’aldilà e l’aldiqua non sono più due facce della stessa medaglia attanagliate dagli stessi problemi (come dimostrava l’efficace satira alla burocrazia del primo film), ma mondi completamente diversi tra loro (seppur ancora interconnessi), l’uno specchio dei fasti di un cinema ormai defunto, l’altro della fragilità del presente. È dunque in quest’ottica che vanno inquadrate le profonde differenze rappresentative dei due universi: se il mondo dei morti (e quindi del cinema che fu) viene infatti messo in scena in modo espressionista, con il ricorso ad effetti speciali prevalentemente artigianali e analogici, quello dei vivi risulta completamente immerso nel digitale, subissato da filtri fotografici e dall’ampio ricorso alla CGI. Stando a questa chiave di lettura, il villain incarnato da Dolores, che grazie ad invadenti effetti visivi ricompone il suo corpo, rattoppando le parti del suo cadavere dissezionato, sarebbe quindi una metafora del cinema contemporaneo, che attraverso il digitale tenta di tenere insieme i pezzi di un passato glorioso, dimostrandosi in forte crisi sia di idee, che di genere (il finale risulta infatti un pastiche che mischia non solo horror e commedia, ma anche noir, action e musical).
Al netto delle possibili letture interpretative, Beetlejuice Beetlejuice risulta comunque un solidissimo divertissement, perfettamente coerente con la poetica burtoniana, impreziosito dall’eccellente colonna sonora di Danny Elfman e arricchito da un cast stellare, quasi sempre in parte (qualora ve lo steste chiedendo la risposta è no, purtroppo Monica Bellucci non ha ancora imparato a recitare, ma le poche battute aiutano). A destare qualche perplessità risultano solo alcune lungaggini superflue (come l’arco narrativo di Willem Dafoe) e il semplicismo didascalico con cui Burton si scaglia contro i social e gli influencer: la sequenza del matrimonio, ad esempio, sebbene mostri un ennesimo saggio di digitale applicato contro la contemporaneità, appare fin troppo passatista, sommaria e superficiale.