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Il segreto di Jack White è fare sempre a modo suo

Jack White con “No Name” l’ha fatto di nuovo e la cosa che più importa è che l’abbia fatto a modo suo, donando un’opera da scomporre, assimilare e a cui regalare un altro piccolo pezzo di cuore

Nessun nome e nessuna indicazione: così viene presentato al mondo No Name, sesto album in studio di Jack White. L’ex White Stripes, ai vertici della Third Man Records, ha deciso di presentare il disco nel suo stile, dritto al punto e senza fronzoli: i clienti degli store ufficiali dell’etichetta, con sedi a Londra, Nashville e, ovviamente, Detroit, sono stati sorpresi dai cassieri al momento finale dell’acquisto con l’aggiunta di un vinile non richiesto dalle sembianze di una vera e propria copia test pressing. La risposta ai più curiosi presenti è proprio “ordini del capo”: un regalo per la comunità, a quelli che ancora credono nel potere e nella bellezza della musica fruibile su supporto fisico, a discapito della comodità ormai offerta dal digitale. E sempre per il bene della comunità, l’etichetta affida a un post sui social l’invito a copiare, piratare e condividere in rete il disco, uscito due anni dopo la combo Fear Of The Dawn ed Entering Heaven Alive.

Composto da tredici tracce di cui una strumentale, No Name ripercorre la carriera dell’artista e delle sue molteplici band: c’è il tipico Jack White di Old Scratch Blues coi suoi inconfondibili riff un po’ stoner e un po’ blues, ma anche dei rimandi ai Raconteurs come in It’s Rough On Rats o Tonight (Was A Long Time Ago) e, ovviamente, ai White Stripes, come in Bless Yourself. Meno rimandi al progetto The Dead Weather che lo vede co-protagonista assieme ad Alison Mosshart, ma pur sempre un résumé di tutta la sua arte caratterizzata anche da un’elevata qualità di produzione, finalizzata a un’elevata esperienza di ascolto: si percepisce sempre l’attenzione ai dettagli, come per la scelta dei suoni fruibili in mono o in stereo, e più in generale la grande cura che Jack White dedica al suo sound. A primo ascolto, il disco sembra percorrere due direzioni: la prima più familiare, con influenze che si avvicinano ai più classici Led Zeppelin ma anche a Rolling Stones e Black Sabbath – non a caso sui due lati del vinile sono incise poche parole, “Heaven and Hell” e “Black and Blue”.

La seconda invece più innovativa senza troppe band di riferimento – che siano sue o meno poco importa, ma pur sempre Jack White, come nella più punk di tutte dal titolo Bombing Out, a riprova della sua capacità di reinventarsi rimanendo fermamente sé stesso. Un album certamente interessante, forse meno iconico di un Blunderbuss o di un Consolers Of The Lonely o, ancora, di unHorehound e di un Elephant ma equamente memorabile: Jack White l’ha fatto di nuovo e la cosa che più importa è che l’abbia fatto a modo suo, donando a noi nostalgici del vintage, ultimi romantici sognatori di quel senso di comunità dato dalla musica, un’opera da scomporre, assimilare e a cui regalare un altro piccolo pezzo di cuore.

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