Mentre l’avvampare del sole spreme grandi gocce dalla fronte dei fan appostati nel parterre dell’Auditorium, la ragazza con cui ho attaccato bottone durante l’esibizione di Airhead – e con cui abbiamo disquisito per dei buoni venti minuti su quale tra In Rainbows ed Ok Computer sia effettivamente il miglior disco dei Radiohead – mi fa notare che sul desk del fonico c’è un A4 (che ora si trova sul mio comodino) e che sopra vi campeggiano delle scritte in stampatello. Si tratta ovviamente dei brani che James Blake sta per eseguire, e lei continua a dire «la sette, la sette», ignorando la disastrosa condizione visiva in cui, ahimè, imperverso in giornate di luce come questa. Più tardi avrei capito meglio perché le sue parole suonassero così fiere, ma a questo arriveremo a tempo debito. Ad ogni modo Blake entra dopo un classico quarto d’ora accademico, con la sua camicia scura addosso ed il suo taglio british in testa. Dalle luci blu, che contrastano con l’arancio dei padiglioni della venue, emerge questo ragazzone alto ed esile, bagnato dai riflessi del tramonto che via via scompaiono dietro la schiena della struttura.
Prende posizione con la band nel suo habitat naturale ed inizia a partorire magia sonora, toccando ogni latitudine della superficie musicale finora conosciuta. C’è il suo inconfondibile tocco di pianoforte, leggiadro e morbido come un fiocco di cotone, ma c’è pure una massiccia dose di basso al di sotto dei sessanta hertz. Ci sono texture granulari che impreziosiscono i brani più melodici, ma di contraltare anche una miriade di ritmiche sempre nuove, che flirtano con il rock e l’elettronica. A Loading segue Mile High, l’instant classic che vanta la collaborazione con Travis Scott e Metro Booming – mi correggo, intendevo dire che sono Travis e Metro a vantare la collaborazione con James Blake. Giungiamo a Life Round Here, poi CMYK e, come detto, la sensazione è di aver già camminato in lungo e in largo sulla mappa dei suoni (ma, spoiler: siamo solo alla sesta traccia, che per la cronaca è proprio Say What You Will). È in quel momento che, come Giotto, James Blake introduce la terza dimensione. Scopriamo dunque che tutto ciò che abbiamo calpestato fin qui può essere scavato o scalato toccando vette ed abissi inediti. Ovviamente stiamo per vedere concretizzarsi davanti ai nostri occhi l’atto di scandagliarli tutti quegli abissi, di perlustrarle integralmente quelle vette. E allora arriva Hope She’ll Be Happier, la famosa “sette” sulla scaletta. L’esecuzione nasconde una sorpresa, perché ad un tratto Blake fa un cenno alla band con la testa e ci ritroviamo dentro No Surprises dei Radiohead.
È allora che la ragazza mi dice: «Vedi? Anche per James il migliore è Ok Computer». La verità è che io ho già gli occhi gonfi e che una coreografia di braccia ondeggia davanti a me in un oceano dentro cui affogare è un reale privilegio. Quello che succede di lì in avanti meriterebbe una trilogia di romanzi, ma per motivi di salute (la vostra) mi limiterò a dire che anche quando il riverbero dell’ultima nota si è disperso nell’aria, anche dopo lo scrosciare prodotto delle mani che si schiaffeggiano vigorosamente a mezz’aria, la musica in qualche modo non se ne è andata. È rimasta nel cuore delle persone sotto i portici fuori dalla struttura mentre raggiungono le auto, ed è rimasta di certo nell’anima di chi ha immortalato questa notte con un messaggio vocale alla persona che ama, o con una foto, un video, un articolo tipo questo. È rimasta pure nella testa di chi è stato fermo ad ammirare per tutto il tempo James e soci fare quel che riesce loro meglio. Cos’è la musica, d’altronde, se non un farmaco a lungo rilascio, senza effetti indesiderati?