dark mode light mode Search Menu
Search

Leon Faun, intimo e sincero

Leon Faun si è messo a nudo e con “Leon”, il suo ultimo disco, si racconta come mai aveva fatto in precedenza. «È stato un dare ed avere, difficile ma liberatorio», racconta

La sensazione che ti arriva guardando la cover di Leon, ultimo disco di Leon Faun, è l’immersione totale in una tavolozza variopinta di colori. Giallo, blu, verde, un caleidoscopio che è l’emblema del disco che poi andrai ad ascoltare. Perché in fondo Leon, il ragazzo classe 2001 giunto al secondo disco della carriera, ha anch’esso una palette di colori variegata, variopinta, poliedrica.
C’è il lato fantasy, con cui si è mostrato al grande pubblico coi primi singoli e col disco d’esordio. Ma ora scopriamo anche una vena più intima, brani in cui si mette a nudo e si racconta come mai aveva fatto in precedenza. Senza preconcetti o pregiudizi, scoprire questo nuovo lato del ragazzo romano è sorprendente, inaspettato, al punto che ti spiazza e non sai cosa ancora possa avere in serbo. Che poi è la stessa reazione quando a metà disco parte Fuga da Genova, uno dei brani più introspettivi di tutta la sua produzione. Ma la chiacchierata con Leon ha agganciato un’altra sua grande passione, quella per il cinema, manifestata per mezzo della serie Banditi di Netflix, in cui recita. Un ruolo diverso, una passione che viaggia di pari passo a quella musicale e che ora come ora si sovrappone nella sua vita.

Come pensi sia stato recepito il disco dal pubblico, dato che ormai è uscito da un po’.
Il disco è stato percepito bene, anche chi magari è più lontano da un punto di vista di suoni, ha apprezzato il cambiamento, ha apprezzato il viaggio. Non c’è stata per niente una risposta negativa, sono ancora più elettrizzato anche per come sono andati i due live a Roma e Milano, due date stupende in cui i fan hanno risposto alla grande.

Come cantava Caparezza “Il secondo album è sempre il più difficile”: trovi che lo sia stato anche per te?
Assolutamente, tant’è che l’ho citato nel trailer dell’album, girato da Francesco Vezzulli. Questa cosa è verissima: ho affrontato una sorta di depersonalizzazione, dovevo capire come procedere in vista del percorso che avevo intrapreso in passato, con la spinta fantasy che mi ha contraddistinto nel primo disco. Volevo aprirmi un po’ di più, credo di esserci riuscito, ma è stato un percorso creativo lungo e complesso, difficile, ma al contempo pure molto stimolante e divertente.

A proposito di Caparezza, sappiamo essere una tua grande fonte di ispirazione artistica. Quanto ha influenzato il tuo percorso di crescita, lui e la sua musica?
Sia dal punto di vista artistico che da quello umano è una persona che stimo enormemente. Ho sempre guardato a lui vedendolo come un’ispirazione gigantesca, tutto ebbe inizio quando ero piccolino, mio padre mi portò ad un suo live, credo fosse il tour di Museica: semplicemente mi innamorai, da lì andai a recuperarmi tutto il resto. E quando pubblicai le prime cose, aver avuto il suo apprezzamento è stato sempre uno stimolo incredibile, Michele è sempre stato gentile nei miei confronti ed ho avuto il piacere di suonare prima di lui, aprendo il concerto di Brescia un paio di anni fa. Per ciò che mi ha dato, sotto molti punti di vista, è una persona che non smetterà mai di ringraziare.

Sono trascorsi tre anni da C’era una volta. Cosa è cambiato nel processo dietro Leon?
Ho lavorato con diversi producer, che in fondo sono i veri feat dell’album. C’era una volta è un lavoro che ho fatto individualmente con Duffy, stavolta mi sono interfacciato con diverse realtà. Con Sick Luke per esempio avevamo co-prodotto un pezzo (Freddy Vibes) nel primo disco, poi ho fatto una comparsata in X2… Ora ho lavorato tanto con False, un nuovo produttore che ha lavorato tanto con me e Duffy. A livello di dinamiche e di team sono cambiate davvero tante cose, in questi anni ho fatto sicuramente vari esperimenti che si sono trasformati in brani contenuti nell’ultimo disco. Poi ci sono state altre cose, come Briganti, la serie uscita da poco su Netflix, siccome non faccio solo musica. Per il resto mi sento di dire che è stato un periodo fondamentale, in cui mi sono fatto tante domande e mi sono dato risposte con la musica.

Possiamo affermare che la penna è stata catartica in questo periodo? Abbiamo apprezzato più Leon persona che personaggio fantasy, rispetto al disco precedente.
Il disco si chiama appunto Leon perché racchiude l’esigenza stringente di mettere me stesso all’interno di esso, cosa che prima non avevo fatto; è stato un dare ed avere, liberatorio, divertente… Nessuno mi vieta di tornare indietro, ma a questo giro avevo bisogno di raccontarmi senza alcun filtro.

Ciò che invece non è mutato è il rapporto strettissimo con Duffy, che aveva prodotto interamente il primo disco. C’è tanto rap anche in questo binomio rapper-producer…
Con Duffy, prima ancora che un discorso prettamente lavorativo, c’è un legame umano che nasce addirittura alla scuola materna, è praticamente mio fratello. Abbiamo iniziato insieme ed entrambi, col tempo, siamo cresciuti… Duffy ha pilotato anche altri progetti, oltre al mio ha lavorato anche ad altro. Io stesso ho collaborato a stretto contatto con Luke, con False. Non è un discorso di allontanamento, quanto più che ha fatto bene ad entrambi lo sperimentare cose diverse. Sarà sempre uno stimolo.

La sensazione lungo tutto il disco è che il suono sia meno chiuso e più orchestrale, più suonato: cosa ti ha portato a questa scelta?
Semplicemente la voglia di sperimentare musica. Non nego che sono partito da fare cose rap, sarò sempre legato ed amerò sempre il rap, non smetterò mai di farlo, ma allo stesso tempo ho sempre cercato di sperimentare e di fare altre cose. Basta ripensare ai miei primi singoli, Gaia e Occhi lucidi: non sono rap. Ho cercato semplicemente di sperimentare il più possibile perché ne ho sentito l’esigenza, e da un punto di vista del sound siamo andati più a ricercare un cambio di stile.

Uno dei pezzi più intimi è Fuga da Genova: come nasce?
Fuga da Genova è un pezzo d’addio, è stata la fine di un qualcosa che doveva ancora cominciare con questa persona, a causa del fatto che vivevamo due vite molto differenti. Questa persona doveva andare via da Roma, la storia non poteva continuare… Niente, è semplicemente una lettera d’addio.

In Meteorite invece canti “È tutto così finto da quando vivo a Milano”. Come hai vissuto lo stacco dal vivere a casa tua, a Roma, al trasferimento nella grande metropoli?
Con Milano, ma vale lo stesso per Roma, vivo un rapporto un po’ conflittuale, tipico delle grandi città: odio/amore, ti stimola tanto dal punto di vista lavorativo, non fermandosi mai. Ma, allo stesso tempo da romano, è proprio troppo incentrata su quella sfera lavorativa per cui tutti corrono H24, dopo un tot ho bisogno di tornare a casa dalla famiglia. C’è stato un periodo lungo, qui a Milano, che alla lunga mi ha annichilito, alla fine non credo sia successo solo a me, penso che ogni artista abbia bisogno ad un certo punto di tornare alle proprie radici ogni tanto.

Sempre in Meteorite hai affrontato il tema dell’algoritmo, inteso in senso lato come intelligenza artificiale. Come pensi influenzerà la tua generazione?
Tutto questo mondo virtuale che si è creato, fatto da social, interazioni, algoritmo, che ha drasticamente abbassato la soglia di attenzione… Non mi va di fare di tutta l’erba un fascio, ma anni fa mi ricordo che stavo più attento, la pandemia probabilmente ha esasperato ancora di più questa condizione e lo sviluppo tecnologico supersonico ha fatto il resto. Ripeto, non voglio generalizzare, non credo che questa generazione sia persa: semplicemente è difficile catturare e mantenere l’attenzione delle persone per un tempo mediamente lungo. Non solo per il mondo della musica eh, anche sul cinema vale lo stesso discorso. Al cinema si va meno, l’esplosione delle piattaforme streaming ci ha portato tutto a casa, senza doverci alzare dal divano…

Quale gancio migliore per passare a parlare della tua seconda vita, quella da attore. Ci sono differenze tra il Leon musicista ed il Leon attore?
Non so che differenze ho io nel momento in cui vivo i due ruoli. La musica, per quanto poi esista il rapporto col produttore, col manager, col team di lavoro è parecchio più individuale. Quando lavori come attori invece vai comunque ad interpretare un’opera di un’altra persona, ad interpretare un ruolo diretto da un regista, convivere con altri attori sul set – cosa che manca quando sono in studio a fare la guerra con me stesso, più che con un altro attore. Magari sono due mondi che possono andare in conflitto a livello di tempistiche: banalmente se faccio una serie, e sto sul set sei mesi, non posso stare in studio. Viceversa, se sto lavorando ad un album e mi arriva una parte, ho delle date più stringenti e potrei non accettare quel ruolo. Sono due mondi completamente separati che amo allo stesso modo e che spero di continuare a vivere a lungo, sono le mie due più grandi passioni da sempre.

Come ti sei trovato ad interpretare la parte che hai in Briganti?
Eh, è stato fighissimo! Ho sempre desiderato lavorare ad un progetto storico, quindi girare una serie ottocentesca ambientata nel Sud Italia è stato bellissimo. Anche col cast, coi registi si è creata una sinergia pazzesca, è stato davvero stimolante. Ho avuto la fortuna di lavorare con delle persone magnifiche, sia umanamente che professionalmente. Spero di aver appreso il più possibile e spero che accadano ancora cose così, perché è stato un viaggio assurdo.

Preferisci serie TV o cinema?
Mah in realtà apprezzo entrambi, sono fan dei film ma ho visto delle serie meravigliose. Se devo scegliere tra i due forse ti direi cinema.

Quali sono allora gli ultimi tre film che ti hanno colpito in positivo?
Beau is Afraid di Ari Aster, che è una bomba. Poor Things di Lanthimos e Dogman di Matteo Garrone, che ho rivisto recentemente ed è davvero una perla.