Sono seduto sul mio seggiolino e mi sto godendo avidamente la vista sui palazzi di Roma. Anche la Capitale ha deciso di concederci una tregua e di regalarci una insolita serata di fine giugno in cui l’aria è frizzante ed il cielo sembra uscito dal più perito dei pennelli di Monet. Dovrei mettere lo smartphone in tasca, ma l’istinto di iniziare ad appuntare ciò che vedo e sento è troppo forte – ho una tremenda paura di scordare qualcosa. Accanto a me, ad esempio, ci sono uomini e donne di età diverse che prendono posto come api nella loro arnia. C’è una signora sulla sessantina che ha la maglia di Unknown Pleasures dei Joy Division, e poi un ragazzo alla mia sinistra che ha quella di Ágætis Byrjun dei Sigur Rós. Un altro ancora sembra uscito dagli anni Settanta per via delle basette ed i baffi da porno divo. Tutto attorno a me sembra coniugato al passato, eppure siamo qui ad attendere la manifestazione di un gruppo che proviene indubbiamente dal futuro. Sulle gradinate ci sono anche Harry Styles, Alessandro Michele e molti artisti italiani che stimo. Tutto ciò contribuisce alla costruzione di un ecosistema a bolla (e tremendamente in bolla) che ti gratifica come essere umano e ti permette di abbassare i battiti.
C’è quel mantra, poi, che fa avanti e indietro nella mia testa, come la corrente sul bagnasciuga. Mi ripete: “sei nel posto giusto”. Perché in effetti è proprio qui che succedono – o meglio, stanno per succedere – le cose. Dopo una incredibile esibizione di James Holden in apertura, bagnata peraltro da una pioggia di applausi, una breve sequenza di pezzi jazz ha introdotto Thom e soci. Niente fuochi d’artificio, botole segrete, effetti di scena. Non sono i The Smile la band più conforme ad un ingresso roboante – scandito magari da colonne sonore tratte da chissà quale cult movie statunitense. C’è solo la luce spia dello steward che ondeggia nel buio dalle quinte. È il segnale: Greeenwood, Skinner e Yorke (in questo ordine) emergono dribblando cavi, colonne di amplificatori e strumentazione. Inizia una masterclass di scrittura ed esecuzione musicale, fatta di brani in tempi dispari, di linee di basso che non sembrano linee di basso, di groove di batteria swingati e gommosi (tra tutte le cose sorprendenti, il modo di suonare di Skinner è quello che mi ha impressionato di più), ma anche di tappeti eterei di chitarre granulari e organi, di ritmiche acustiche di radioheadiana memoria, di riff distorti e taglienti che prendono vita dentro gli oscillatori del synth. Assistere ad una simile liturgia significa accettare un’ora e mezza di montagne russe, in cui i BPM si alzano e si abbassano di continuo anche all’interno di uno stesso brano ed in cui le frequenze complementari si mescolano per dare vita ad un Pollock di suggestioni sonore.
Ho la netta sensazione che la vera magia dei The Smile risieda nel fatto che i tre membri della band abbiano sempre tutto sotto controllo – eppure danno vita a mondi che a parer mio non possono esistere senza aver prima accettato l’idea di lasciarsi completamente andare. Arrivano sempre sul punto di eccedere nella supponenza tecnica, ma poi non oltrepassano mai il limite. Il loro concerto è a tutti gli effetti un amplesso promiscuo in cui gli amanti conoscono il loro corpo e quello degli altri. Perché ogni dettaglio, persino le sporcature, sembrano essere messe lì in bella vista per farsi notare. Fa tutto parte dell’incantesimo ed è per questo che niente potrà mai ammutolire quel mantra di cui sopra, che tambureggia ancora e ancora. Mentre poco distante, allo Stadio Olimpico, prende forma lo show dell’inconsistenza, della bieca leggerezza, del cauto e del pavido, dinnanzi a me ho appena assistito al contraltare che bilancia i mondi paralleli, che rimette le cose in ordine, che pareggia il risultato cosmico, che compensa la quantità con la qualità. Sono qui coi miei simili e sì, sento di essere nel posto giusto.