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Il rap secondo Murubutu

Murubutu conversa con la stessa incisività con cui scrive e tratta ogni tema con l’eloquenza di chi è abituato a parlare e ad essere ascoltato

Murubutu conversa con la stessa incisività con cui scrive. Tratta ogni tema che gli sottopongo con l’eloquenza di chi è abituato a parlare e ad essere ascoltato, la sicurezza di chi sa quello che dice e sa di saperlo, e la lucidità di chi è abituato a studiare la complessità di ogni situazione e a non dare mai nulla per scontato. Mentre parla percepisco chiaramente la sua convinzione, la sua grande fiducia nell’utilità che la sua musica e il rap in generale possono avere nell’arricchire il panorama culturale italiano, e la sua voglia di continuare ad articolare il proprio percorso in modo da far capire a un pubblico sempre ampio che il rap può essere un linguaggio adatto a raccontare storie di alto spessore storico, sociale e politico. Dentro a questa visione ci sono i suoi dischi, tradizionalmente incentrati ognuno su un concept: l’ultimo, Storie d’amore con pioggia e altri racconti di rovesci e temporali, gira intorno alla pioggia, ma tra gli altri ci sono stati anche la notte, il vento e il mare. C’è Letteraturap, il format che sta portanto in giro per l’Italia sul possibile incontro tra rap e letteratura. C’è il tour con la Moon Band Jazz che ha già portato al Blue Note di Milano ma che nei prossimi mesi arriverà, tra le altre, a Roma, Bologna, Napoli e Reggio Emilia. E c’è anche la partecipazione a iniziative come quella in occasione della quale lo incontro, la commemorazione di un partigiano dodicenne ucciso nel 1944 dalle forze tedesche. La nostra conversazione parte proprio da quest’ultima iniziativa per poi arrivare a toccare temi tanto complessi quanto attuali, tra cui censura, giovani, scrittura, rap e tanto altro.

Cosa accadrà su quel palco stasera?
Questa sera commemoriamo Ugo Forno, un giovanissimo partigiano che nel 1944 venne ucciso per aver inseguito alcuni soldati tedeschi che volevano far saltare in aria un ponte. Io interverrò per parlare del valore della musica rispetto alla cultura e alla storia. Credo fermamente che il rap possa avere una valenza didattica nella trasmissione di contenuti culturali e storici.

Un intervento che è parte del tuo format Letteraturap.
Questa sera sarà un po’ adattato a questo contesto, ma Letteraturap è concepito come una riflessione sulla potenzialità della musica, e in particolare del rap, nella scoperta della narrativa. In particolare, tento di toccare alcune correnti letterarie a me care e che ho trattato nella mia musica, due esempi su tutti in neorealismo di Italo Calvino e il realismo magico americano di autori come Gabriel Garcìa Marquez e Miguel Bonnefoy.

L’Italia è pronta a riconoscere al rap questa valenza culturale di cui tu sei convinto?
Sicuramente si tratta di un processo fisiologico che avverrà in modo graduale, ma secondo me sarà così, come avvenuto al cantautorato. Ci sono già pezzi miei e di Caparezza in pubblicazioni accademiche, e ormai anche diversi libri di testo alle scuole medie includono rimandi al rap e alla trap.

Alla luce della pandemia e della tua attività di insegnante, secondo come stanno oggi i giovani?
C’è un processo generale di per sé degenerativo che riguarda i social e interferisce con le relazioni interpersonali e lo sviluppo di uno spirito critico nei giovani. A questo processo già di per sé degenerativo si è poi aggiunta l’aggravante del Covid. Dal punto di vista scolastico i ragazzi si sono disabituati a impegnarsi. È pericoloso.

Poi però vediamo gli studenti riempire le piazze.
Certo, e penso che sia un fenomeno positivo perché denota come gli studenti abbiano ancora voglia di dire la loro. Poi è inevitabile che fenomeni del genere, così partecipati, abbiano eventuali degenerazioni, ma il fatto che esista quest’energia è positivo.

Esiste una struttura che può accogliere questa energia?
Ci può essere. Certamente, il rapporto tra la protesta e il potere non può essere idilliaco, altrimenti non sarebbe protesta. Credo però che ci siano le condizioni per accogliere il dissenso.

Recentemente hai fatto una strofa su Instagram per il rapper iraniano Toomaj Salehi. Mi racconti la vicenda?
Toomaj Salehi
è un rapper iraniano che è stato recentemente condannato a morte per aver criticato il regime degli Ayatollah con la sua musica. Io ho partecipato a una campagna di sostegno per lui al fine di sensibilizzare le persone e portarle a firmare un appello per liberarlo.

Abbiamo un problema di censura in Italia?
Sì, ma non è gestibile come lo era anche solo dieci anni fa. Adesso se provi a censurare qualcosa o qualcuno si viene a sapere immediatamente. Con tutti i lati negativi che questo può avere, la pluralità faccia sì che non sia più possibile reprimere il dissenso. Reprimendo, anzi, si amplifica.

Secondo te la musica italiana si esprime abbastanza sulle questioni politiche?
Lo può fare e in alcuni casi lo ha fatto. Il problema forse è un più generale scollamento tra i giovani e la politica. Per un artista occuparsi di politica non è visto come attuale; anzi, se ti occupi di politica sei visto come un po’ noioso. Dire che non si fa politica è diventato quasi un motivo di vanto o una giustificazione. In realtà tutto è politica.

Ci sono storie che hai trovato troppo difficili da raccontare?
Tantissime. In questo periodo sicuramente la Palestina perché bisognerebbe partire davvero da lontano e stimo chi, come Inoki e Dargen D’Amico, è riuscito a farlo. Generalmente, se ti trovi di fronte alla necessità di semplificare troppo un argomento per adattarlo a una canzone, forse quella canzone non merita di essere scritta. Mi capita di chiudere un pezzo e di rendermi conto di aver estromesso troppe parti, e quindi preferisco lasciar perdere.

Ci sono invece storie che sei orgoglioso di essere riuscito a raccontare?
In Linee di libeccio credo di riuscire a includere tutta la complessità di un contesto sociale davvero complicato come era quello delle donne tradite dai soldati nel dopoguerra nell’America di Truman.

In Markus ed Ewa parli di Guerra Fredda. Ci sono altri periodi poco raccontati che secondo te si potrebbero trattare efficacemente con la tua musica?
Tantissimi, dal genocidio armeno alla guerra di Corea. Però è difficile parlare di argomenti prettamente scolastici o troppo complessi, perché c’è il rischio di risultare o troppo scolastico o troppo pedante. Poi avrebbero ragione quelli che mi dicono di scrivere un libro invece di canzoni.

Quanto te lo dicono?
In passato spesso, adesso si sono dati pace perché hanno visto che ho continuato per la mia strada.

Vorresti scrivere un libro?
Moltissimo, più un romanzo che un saggio, però.

Ti definisci professore o artista?
Credo in generale che definirsi professore sia un po’ altezzoso. Io mi percepisco come un insegnante che fa anche musica e non come un artista che anche insegna.

Ci daresti tre consigli su contenuti culturali che ti hanno ispirato?
Il ventre di Parigi di Emile Zola, che è il mio romanzo preferito, L’uomo che verrà di Giorgio Diritti, un film sulla strage di Marzabotto, e la mostra su Klimt a Vienna.

Quali sono i tuoi progetti futuri?
Sto lavorando al nuovo album che vedrà la luce nel 2025. Poi ho in cantiere cose che non ho ancora fatto, che sono in fase embrionale, ma che sarebbero ulteriori traguardi importanti per me. Non vedo l’ora.

Intanto c’è il tour con la Moon Band Jazz.
È un progetto che avevo da tempo, il jazz mi incuriosisce da sempre. Credo che un artista debba sempre evolversi, e quindi quando c’è stato l’occasione è nato questo progetto con musicisti giovani e estremamente talentuosi. Sono molto soddisfatto del risultato.