Ele A, durante la nostra intervista, racconta di non riuscire ad individuare una reazione «starter pack» al suo nuovo EP, Acqua. Forse non dovrei dirlo, rimanendo ferma nella mia posizione di giornalista musicale che non esprime giudizi personali di questo tipo, ma sono abbastanza convinta che il nuovo progetto della rapper classe 2002 troverà il calore positivo che merita tra il pubblico. I motivi di una possibile accoglienza positiva sono diversi: lo stile di Ele A, molto legato all’hip hop old school, il citazionismo, sempre efficace e mai di troppo, e la sua capacità di raccontare la società in cui viviamo attraverso gli occhi di una giovane artista, senza mai snaturarsi o calcare la mano su tematiche distanti dal suo mondo.
Hai una bellissima modalità di utilizzo delle parole. Se da una parte mi sembra molto pensata, dall’altra ho la percezione che sia anche molto liberatoria.
Già da Globo sto cercando di semplificare il più possibile, riducendo al succo i concetti di modo da renderli più accessibili a tutti. Non è semplice da fare e a me viene particolarmente difficile, perché sono cresciuta ascoltando rap molto tecnico. Ti faccio un esempio: Mattak. Quando l’ho scoperto ho iniziato ad ascoltare solo lui ed è un rapper davvero super tecnico. Agli inizi non hai un tuo stile, devi svilupparlo, ed emuli quello che ti piace, quindi sto attuando un processo di “ritorno alle origini” per semplificare il più possibile.
In Neve parli di questi “sassolini nelle Nike” che pian piano diventano sempre più grandi. A cosa fai riferimento?
Hai presente il detto “togliersi i sassolini dalla scarpa”? Ecco, fa riferimento a questo concetto. È quel qualcosa che hai sempre sulla punta della lingua, che però non dici, e alla fine si ingigantisce fino a schiacciarti. In questo caso è un modo per raccontare come siamo fatti. Nella mia famiglia è una cosa presente, come penso in tantissime altre. Non si dicono le cose, è tutto perfetto e non ci sono problemi.
In Nodi dici “Mi fido solo dell’ombra riflessa sul marciapiede”. In un’altra intervista (con Billboard Italia, ndr.) dicevi che sei una persona che tende a fidarsi poco. Questo aspetto è cambiato, sia lavorativamente che personalmente?
Dipende cosa si intende. Sono giunta alla conclusione che è impossibile fare tutto da soli, quindi piuttosto che non fidarmi degli altri devo essere io a farmi capire meglio. Chiaramente quando mi facevo io le copertine con Pixart non potevo sbagliare (ride, ndr.), mentre adesso che devo spiegare a qualcuno come farle senza dubbio ci vuole fiducia, e da parte mia ci vuole anche un modo di comunicare chiaro. Anche perché quando si comunica in modo debole si ottiene sempre la cosa sbagliata.
Quindi ti fidi un po’ di più?
La fiducia secondo me è una questione di predisposizione. Tutti conosciamo qualcuno che è sempre rimasto fregato ma continua a fidarsi. Io sono esattamente all’opposto, ma sto cercando di trovare un equilibrio.
In Oceano troviamo l’unico featuring dell’EP, Nerissima Serpe. Perché hai scelto proprio lui?
Ho subito pensato a lui perché sta benissimo sul concept, ha un immaginario molto legato agli animali e alla natura e nel suo ultimo disco c’è un brano, Mare d’inverno, che lui riprende anche nella strofa. Ci sono tanti elementi che matchano e io sono una persona molto visiva per quanto riguarda i progetti, ho sempre in mente il visual anche quando non c’è nulla, e con la sua scrittura credo si sia chiuso un cerchio. Quando ci siamo beccati mi ha detto che ha scritto la strofa di getto e credo si senta, perché matcha perfettamente con le vibes e la produzione.
Questo tuo essere visiva, come dicevi, lo ritroviamo totalmente nell’EP, che oltre alla cover ha continui rimandi all’acqua.
L’acqua per me che sono cresciuta in un posto in cui il lago è il fulcro della città è importantissima. Ho utilizzato molto il lago come punto di riflessione, dove puoi specchiarti e capire cosa stai pensando veramente. Un lusso che nelle metropoli magari non ti puoi permettere. Il concept del disco lo avevo in mente da un sacco di tempo, ma la scintilla è arrivata una sera mentre parlavo con il mio manager Andrea (Favrin, ndr.) e mi ha tirato fuori il concetto di “società liquida” di Bauman. Sono andata ad approfondirlo e l’ho trovato super attuale, perchè rappresenta appieno la società in cui viviamo.
Hai all’attivo tantissime collaborazioni. Te ne prendo due in particolare: Mace e DJ Shocca.
Neanche nei miei più remoti pensieri pensavo di arrivare a lavorare con dei mostri sacri del genere. Sono soddisfatta di quello che ho fatto, è molto raro che mi piaccia quello che faccio (ride, ndr.). Mace mi ha insegnato veramente tanto. Non si accontenta mai, vuole solo il meglio. Cerca di ricavare esattamente il fulcro delle emozioni, anche nelle sfaccettature della voce, vuole tirare fuori la pepita. Questo mi ha aiutato tanto a perseverare e tirare fuori sempre di più. Ha una cura dei dettagli maniacale che ammiro tantissimo, non ho mai visto nessuno lavorare così e spero un giorno di avere la sua stessa visione così centrata della musica.
E per quanto riguarda DJ Shocca?
Il fatto che mi abbia chiamata è stato assurdo, perché nel 2017 ancora non facevo musica, ma avevo fatto una lista di miei produttori preferiti italiani con cui sognavo di collaborare, e Shocca era al primo posto. Stesso discorso vale per Guè, non ci credevo. Tra l’altro è uno dei pezzi che live piace di più, perché ha un’energia super ed è proprio un pugno in faccia.
Quest’estate partirai per un tour decisamente corposo, tra date italiane e all’estero. Aspettative?
Non ne ho idea, perché non ho mai fatto date “mie”. Nel senso, ci saranno tantissime date in festival a cui siamo abituati, ma non sai mai come reagirà il pubblico. Credo che portare i pezzi nuovi live sia sempre la prova del nove, per capire se sono arrivati o meno e cosa si può migliorare. Sto cercando di fare un po’ di esercizi per la voce, perché tengo davvero tanto alla dimensione live. Non ho il lusso di avere un pubblico mio che posso far cantare quando mi pare, quindi ci tengo a farmi conoscere in modo clean.
In un’intervista parlavi di timidezza. Un aspetto che caratterizza tantissimi e spesso viene visto negativamente. Tu riesci a trovare un equilibrio?
In questo periodo forse mi sono intimidita ancora di più. Il palco lo vivo come qualcosa di distaccato da me, una dimensione in cui ho un altro ruolo e non c’è un momento come quello paragonabile alla vita di tutti i giorni. Il mio obiettivo è di portare a termine al meglio la performance, perché la vivo molto “in servizio della musica”. La timidezza non per tutti è qualcosa di caratteriale, perché io di default sono una persona a cui piace un sacco parlare con la gente, ma per fattori anche ambientali, familiari, determinati incontri che fai, ti portano a chiuderti. Sono dell’idea che ci sono persone che non amano la socialità, cosa assolutamente normale, e persone che sono state portate a chiudersi.
Ci facciamo un sacco di paranoie, no?
Io vorrei togliermi questo lato, perché è davvero tutta paranoia. Mi piace il contatto con le persone, ma ho la para di fare brutta impressione, una sensazione che penso abbiamo un po’ tutti. Spero di riuscire a lavorare su tutto questo anche grazie a questo progetto, che mi obbliga ad uscire dalla mia zona di comfort.