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Gli Smile sono i maestri del diverso

Non sappiamo se “Wall Of Eyes” degli Smile sarà presto in una classifica dei dischi più importanti del millennio, ma è evidente che poche cose riescano come Thom Yorke a farci emozionare

Non frequento Chiese o luoghi di culto da diversi anni – ultimamente ci entro solo per eventi catastrofici: funerali e matrimoni. Per questo, ma anche per via d’una naturale inclinazione, vorrei provare nuovamente l’ebrezza della confessione. Ebbene, sono diversi anni che mi risulta davvero difficile provare qualcosa di realmente stupefacente in fatto di nuove uscite musicali. Salvo poche eccezioni (Kendrick Lamar, Billie Eilish, Sigur Rós e qualcos’altro che certamente ora mi sfugge) è difficile tornare a provare quel brivido che di solito ti solca prepotentemente la schiena quando hai la sensazione di esser davanti a qualcosa che resterà per sempre. Io sono costantemente alla ricerca di un fulmine che squarci l’aria ma, a conti fatti, è tutto fin troppo soleggiato dalle parti delle mie orecchie – una specie di vacanza alle Canarie ma tu stai cercando la tempesta.

E allora ecco che l’annuncio di un nuovo disco di autentico alternative rock diventa qualcosa di simile alla strattonata che aspetta il pescatore in mare aperto, dopo giorni di assoluto niente. Ora: tanto per essere chiari, io non so se Wall Of Eyes dei The Smile sarà un giorno all’interno di qualche roboante classifica dei dischi più importanti del nuovo millennio, ma è evidente che poche cose al mondo riescano come Thom Yorke a farmi rizzare i peli sulle braccia (ecco una delle cose che certamente scordavo in testa a questi pochi righi: Anima, del 2019). Che sia il suo progetto solista – appunto – oppure un nuovo album dei Radiohead, a noi interessa poco, perché in tutto ciò che porta il suo zampino c’è sempre quell’ingrediente segreto che droga il cocktail e ti manda in orbita. L’ultima fatica in studio dell’eclettico trio formato da Jonny Greenwood (già chitarra dei Radiohead), Tom Skinner (Sons of Kemet) e l’alchimista Thom Yorke è una fisiologica prosecuzione/evoluzione dell’esordiente A Light for Attracting Attention e mantiene tutte le sue caratteristiche.

Per certi versi potremmo dire che se avevate trovato un po’ noioso il primo lavoro, di certo anche questo fratello minore possederà il medesimo difetto di fabbrica. Io sono di tutt’altro avviso, comunque, perché certamente questo nuovo suggestivo progetto musicale è meno catchy dei due sopracitati, ma questo non è necessariamente un difetto, anzi. Ricapitolando, prima che mi perda in chiacchiere: se cercate il vestito da raver dello Yorke solista o l’epicità dei Radiohead non li troverete qua dentro perché quelli sono stilemi troppo inflazionati e dunque troppo “semplici” per uno che arriva a questo disco a cinquantacinque anni, dopo un viaggio che lo ha visto scandagliare tutto il fondale musicale finora conosciuto. Postilla di vitale importanza: quando dico “semplice”, contestualizzate sempre questo termine all’interno del sistema di riferimento alternative – non mettetemi frasi ambigue in bocca, per carità. Nella musica dei The Smile non c’è trucco e non c’è inganno, insomma – solo musica al suo stadio più crudo e viscerale.

Niente abbellimenti o lucine colorate e niente vaso. Che se ne fa d’un vaso un abete di venti e passa metri di altezza piantato nel terreno da decenni? Se siete pratici di Radiohead, potreste capire ciò che intendo se dico che Wall Of Eyes è qualcosa di più vicino a In Rainbows piuttosto che a Ok Computer, per la presenza di suoni puri di batteria e tempi non comuni. Roba insomma che necessita di almeno un paio di ascolti e una pastiglia di Brioschi per essere digerita. Ce n’è per tutti i gusti qui dentro, comunque, non preoccupatevi. Teleharmonic, ad esempio, parte come un pezzo alla Kid A ma poi sprigiona un’anima blueseggiante dal sound etnico fatto di tappeti e flauti. Una paella, un Frankenstein, un patchwork che solo loro possono far funzionare così bene, senza mai far storcere il naso. Read the Room dev’essere invece frutto di una jam session, perché distrugge completamente il concetto di struttura. È un pezzo prog guidato da un suono di chitarra che prende le sembianze ora di un organetto, ora di uno xylofono.

Infine vi devo citare You Know Me, che è il pezzo conclusivo. Una perla sussurrata al pianoforte che mette in luce la natura extraterrestre del timbro di Yorke. Esso avvolge ed è avvolto al contempo da un manto di code di riverberi che si mescolano dentro le note prolungate degli archi, mentre le meccaniche dei tasti del piano si trasformano in leggeri ticchettii, facendoci scordare del fatto che la batteria non è presente. La smetto di tediarvi con questo tentativo di raccontare l’inraccontabile. Dovete ascoltare. Ci sono talmente tante cose dentro ogni passaggio, che provare a darvi un’idea di ciò che troverete in un brano o addirittura nell’integralità del disco è pressoché impossibile. Finirei per perdermi qualcosa per strada, e infatti l’ho appena fatto. Per questo reciterò tre Padri nostri e quattro Ave Marie. Grazie Signore nostro onnipotente. Grazie Thom Yorke. Viva i The Smile e la loro strana complessa musica.