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I Green Day, trent’anni dopo, sono sempre gli stessi

I Green Day non hanno alcuna intenzione di adattarsi al suono della musica dei nuovi anni Venti del Duemila e “Saviors” ne è la prova più lampante

I Green Day sono tornati, anche se in verità non se ne sono mai andati. Dopo il penultimo Revolution Radio, targato 2016 e l’ultimo Father of All Motherfuckers, uscito nel 2020, la band americana ha rilasciato Saviors, quattordicesima raccolta di inediti della loro carriera, nel mezzo, in questi anni, le registrazioni delle BBC Sessions e le riedizioni di Nimrod e Dookie. Billie Joe, Mike e Trè non hanno alcuna intenzione di adattarsi al suono della musica dei nuovi anni Venti del Duemila e il loro nuovo lavoro ne è la prova più lampante. Saviors si apre con The American Dream Is Killing Me, primo singolo estratto e di facile ascolto in alta rotazione radiofonica, subito seguita da Look Ma, No Brains!, che strizza fortemente l’occhio ai Ramones, padri fondatori di quel punk rock che tanto ha segnato le vite di molti. Di Bobby Sox invece avremmo potuto fare a meno: il testo riporta allo storytelling tipico del pop punk moderno mentre dal riff pare di sentire nemmeno troppo velatamente il rimando a When I Come Around.

Mentre il riff va, penso che è proprio questo che intendo: non potrebbero essere più Green Day di così. Penso anche che non li vedo dal vivo da più di un decennio e che l’adolescente un po’ eterna bambina che è in me è convinta che sia arrivata l’ora di rimediare: American Idiot è il disco che segna la mia vita quanto quella di chiunque altro, anche inconsapevolmente; è il metronomo capace di scandire il tempo vissuto e passato, perché la verità è che esiste una vita prima e una dopo quel disco. Me lo confermano, in fila, One Eyed Bastard e Dilemma: il basso di quest’ultima è totalmente quello della Whatsername di vent’anni fa. Tutto così diverso eppure tutto così uguale: Jimmy, il Gesù di periferia, ora è un uomo maturo e decisamente adulto come lo è ormai ognuno di noi, ma nell’animo resta sempre il solito spaccone alla ricerca di qualcuno che possa capirlo alla perfezione nella critica al mondo contemporaneo. “Strange days are here to stay, ever since Bowie died it hasn’t been the same”, dicono – che poi è quello che pensiamo davvero tutti, registrato su un riff che è quello di Letterbomb e che è sempre più un colpo al cuore.

“All I want is my records making my pain go away”, cantano in Corvette Summer, canzone che entra in testa in tempo zero e che si adatterà alla perfezione alla dimensione live. Saviors prosegue come un perfetto ibrido tra il loro concept album più famoso del 2004 e 21st Century Breakdown. Poche le ballad: Goonight Adeline, Suzie Chapstick, ma è Father to a Son quella più d’impatto. Billie Joe dà vita a una nuova Wake Me Up When September Ends, questa volta in forma di lettera aperta da parte di un padre ai suoi figli. La title track ha il tipico suono da inno del punk rock moderno, mentre Fancy Sauce, l’ultima a comporre un viaggio durato quindici canzoni, dà l’idea di essere una perfetta canzone di chiusura: è con questo sottofondo che immagino tutti i nostri volti al concerto, vent’anni dopo il disco che più ha definito la nostra generazione e trent’anni dopo Dookie, felici da far schifo come fossimo al nostro personale Woodstock 1999.