Ripiegare il materasso, spostare il cuscino, lavare i denti. Tagliare i baffi, annaffiare le piante, prendere le chiavi e scendere le scale. Aprire la porta, guardare il cielo mentre l’alba inizia a spuntare tra i tetti di Tokyo, salire sul furgone, inserire una cassetta nel mangianastri. È con la lunga introduzione fatta di gesti quotidiani ripetuti – giorno dopo giorno, settimana dopo settimana – sempre allo stesso modo, che Wim Wenders presenta Hirayama (Kōji Yakusho, vincitore a Cannes per la sua interpretazione) nel suo Perfect Days, mentre The House of the Rising Sun esplode nelle orecchie degli spettatori. Per chi avesse ancora qualche dubbio, Perfect Days non è un nome scelto casualmente: riprende proprio quella Perfect Day di Lou Reed, anche se ci troviamo in Giappone e il protagonista non è il Re di New York ma un uomo che dedica la sua esistenza alle piccole cose, trovando nella massima semplicità (e nel silenzio selettivo) la sola strada per essere felice. “Just a perfect day, drink sangria in the park, and then later, when it gets dark we go home”, canta Reed, mentre in un altro continente Hirayama porta a termine con la massima precisione e diligenza il suo turno di lavoro come inserviente dei bagni pubblici di Tokyo, per poi prendersi una pausa e mangiare un sandwich seduto sulla panchina di un parco.
Centrale nella regia di Wenders diventa lo sguardo costante verso il cielo; per sorridere, ad Hirayama basta un dettaglio, il movimento delle fronde tra gli alberi, una nuvola che si muove lenta nell’azzurro. Ama provare a catturare quell’immensità inafferrabile con la sua macchinetta, rigorosamente analogica, che con quegli scatti in bianco e nero spesso sbagliati diventa anche la forma in cui di notte il suo subconscio si manifesta nei sogni. Volti, parole, sguardi, natura, si fondono tra di loro in una no man’s land di grigi dove il protagonista sembra entrare in contatto con la dimensione più profonda dell’esistenza, viaggiando come un flaneur tra quelle ombre che l’abitante moderno della metropoli, perso tra i troppi stimoli, non riesce più a cogliere. È grazie a questa sua sensibilità estremante sviluppata che per Hirayama gesti in apparenza semplici come un bacio sulla guancia o due mani che si sfiorano nell’inserire una cassetta dentro l’apposito lettore possono causare un turbamento e una felicità così grandi da mandare a rotoli tutti i programmi del giorno, causando minuscoli vuoti (che noi spettatori percepiamo come enormi, abituati alla meticolosità che ogni scena mostra) tra le sue azioni abitudinarie. Non è un caso che a generare una rottura nella sua perfetta organizzazione siano sempre delle donne: la ragazza del suo collega, la nipote, la sorella, la proprietaria del suo locale di fiducia. Questo è solo un indizio che sembra suggerire la presenza di qualcosa di irrisolto nel passato di Hirayama.
Ma le sue lacrime o i suoi sorrisi appena accennati di fronte alla femminilità altro non sono che l’ennesima conferma di come nel suo navigare l’esistenza non si guardi indietro, ma viva solo l’attimo, il presente, la giornata che lo aspetta. Quello che si cattura cogliendo l’istante è tutto quello che conta, mentre il resto svanirà dalla mente, non rimarrà impresso sulla sua pellicola e nel suo mondo onirico. Non ha poi così senso soffrire su quello che non è accaduto: si può tornare a sopravvivere senza paura dell’ignoto. Il culmine della sensibilità di Hirayama, la dimostrazione dell’abisso di emozioni che lo abita ma che si nasconde dietro le sue poche e refrattarie parole arriva alla fine, in quel primo piano lungo, fisso, in cui lo vediamo intendo a guardare avanti mentre guida accompagnato da Feeling Good nella versione di Nina Simone, in grado di restituire in pochi minuti tutta la profondità e la varietà delle emozioni che un uomo può provare. Wim Wenders ha scelto di catturare la complessità umana in un film costruito sulla linearità, senza colpi di scena, mostrando così quanta bellezza si possa nascondere dietro vite invisibili; mentre le nostre giornate procedono nella frenesia, per qualcuno le ore che passano, fortunatamente, hanno ancora il ritmo di una canzone anni settanta.