Arrivare al Fabrique lunedì è un’impresa: allo sciopero nazionale dei mezzi pubblici che già di per sé avrebbe complicato il percorso per i più si è sommato un temporale, una bomba d’acqua che nel tardo pomeriggio si è piuttosto letteralmente abbattuta su Milano. In condizioni normali, le premesse sarebbero perfette per desistere da qualsiasi tentazione di trascorrere la serata fuori, ma a giudicare dalle facce che si vedono in fila per entrare al concerto, per chi nonostante il colore ancora minaccioso del cielo si è avventurato verso il Fabrique, la fatica fatta per esserci non ha minimamente intaccato l’umore. Un signore di una quarantina d’anni mi si rivolge in inglese perfetto e mi domanda prima se il biglietto va tirato fuori subito o solo una volta entrati e poi se è sempre così difficile spostarsi a Milano. Io gli sorrido tentando di indovinare da dove viene (direi sud dell’Asia, ma non ci metterei la mano sul fuoco) e gli dico che ha semplicemente avuto sfortuna.
Quando però James Blake si siede al pianoforte e intona l’inizio di Asking to Break in mezzo a una serie di sintetizzatori dissonanti, mi chiedo se si tratti effettivamente di sfortuna. Mi chiedo se assistere alla tempesta pomeridiana e trovare il modo di essere lì nonostante le difficoltà logistiche abbia in realtà reso noi del pubblico più pronti di quanto non saremmo stati altrimenti a entrare nel mondo di James Blake, alle sue variegate personalità artistiche, ai suoi sbalzi atmosferici. È un pensiero laterale, questo, su cui sul momento non ho il tempo di soffermarmi. Quando, però, mi ritrovo in strada a concerto finito non posso fare a meno di ripensarci, a come il contesto in cui lo stesso si è svolto me lo abbia reso vicino e immediato nonostante di immediato nella musica di James Blake non ci sia niente. Il filo conduttore dello show è infatti indubbiamente il contrasto. Lo è nella produzione musicale in sé: la sua voce, così pulita e armoniosa, viene spesso accompagnata da bassi distorti e batterie estremamente aggressive e upbeat.
Lo è nella scaletta: il concerto – come per la verità l’intera discografia di Blake – ha chiaramente due facce che si alternano e per certi versi inseguono, quella del James Blake producer, che con il suo DJ set tra house e dubstep fa ballare tutto il pubblico, e quella del James Blake cantautore, che si mette al pianoforte e con precisione magistrale ma ferma delicatezza riempie l’intera sala con la sua voce clamorosa. Lo è infine nella scenografia: James Blake trascorre tutto il concerto seduto al pianoforte sulla parte destra del palco, non alzandosi o muovendosi mai, mentre tutto intorno – sia a livello di suoni che di luci – si muove, cambia, si svuota, si riempie. Lui, con calma regale, dà l’impressione di controllare ogni cosa, ogni cambio di luce, ogni suono che entra improvvisamente nella base, ogni sintetizzatore, ogni batteria. Ci vogliono un carisma e una personalità musicale di livello altissimo anche solo per concepire uno show del genere. James Blake ne sostiene il peso con naturalezza irrisoria.
Così, in un saliscendi di emozioni, con DJ set che si alternano a ballad al piano, batterie che lasciano spazio a synth dissonanti, e un’intensità che anche nei momenti in cui ci sono meno suoni non accenna mai a scendere, trascorrono quasi due ore di concerto. Oltre al nuovo disco – eseguito pressoché nella sua interezza per la prima volta, dato che si tratta del primo concerto del tour – sono memorabili le esecuzioni di Limit to Your Love e Retrograde, due delle sue canzoni più famose. Il momento più alto è però la successione di Godspeed di Frank Ocean e I Want You To Know, tratta dal nuovo disco, che è dedicata al padre e che lui esegue con una presenza emotiva particolarmente. Alla fine, si ha l’impressione di aver vissuto un’altra tempesta, ma questa volta perfetta. D’altronde, quando l’arte riesce a portarti in un altro mondo senza lasciarti dimenticare la realtà, cosa puoi chiederle di più?