Charlie Watts aveva il raro e preziosissimo pregio di una naturale eleganza. Era la prima cosa che saltava agli occhi, forse soprattutto per contrasto a quei geniali scoppiati coi quali s’accompagnava. Lui era il Lord. Il signore del sostanzialismo. Uno che diceva poche cose, ma le diceva come nessun altro. Gli stolti, atti a confondere gli scioglilingua con poche parole dette bene, o a contare quanta roba istericamente riesci ad infilare in una battuta, ritenevano non fosse bravo. Vero: Watts non era bravo. Era bravissimo. Era unico. Come tutti i grandi musicisti aveva un senso dei silenzi e delle pause immenso, e faceva la sua cosa nella casa come nessun altro. Era il B. B. King della batteria. Nella Bibbia secondo la mia generazione (Life, l’autobiografia di Keith Richards) viene spiegato lo stile «assurdo» ed unico del drumming di Charlie, ovvero il charleston in impercettibile ritardo ed il rullante in impercettibile anticipo. Fateci caso, soprattutto nei live: è assolutamente vero (e comunque chi di noi metterebbe mai in dubbio il Verbo di Keef?).
Aggiungiamo che misteriosamente, Charlie girava la testa in un apparente e misterioso fuori tempo, era fermo e dritto come si addice a un Lord, e riusciva a non sudare. L’affiatamento con gli altri della band era tale che era una goduria assoluta sentire soprattutto le prime note dei loro dischi e concerti, ove la cifra stilistica si evidenziava alle primissime battute. Ecco, questi sono gli Stones, ti dicevi, senza alcun timore di sbagliare. E da lì in avanti si godeva sempre. Il sound degli Stones, la più grande rock band di tutti i tempi, è dato in parte enorme dal drumming di Charlie, inimitabile e irraggiungibile. Anche per questo all’inevitabile paraculismo del tour di celebrazione preferiremmo l’onestà di un tour annullato: gli Stones con un’altra batteria (per carità, una batteria capace, conosciuta ed amica come quella di Jordan) semplicemente non sono gli Stones. Charlie ha vissuto con stile ed eleganza immutabili, con gli Stones dal 1963 a 2021, ma note sono le sue fughe nel jazz, a confermare il teorema aureo che i generi sono una fissa, spesso polemica, del catalogatori seriali, ma la musica è solo buona o meno buona. E lui ha sempre fatto musica buona, con minimalismo e gusto inimitabili.
È una pagina tristissima per la musica cosiddetta leggera, ma, come con tutti i grandi, possiamo e dobbiamo godere della sua opera, decisamente abbondante. Riascoltiamolo, facciamoci un piacere e rendiamogli onore nel modo che sicuramente avrebbe preferito. Con stile, senza tanta cagnara, da soli o con gli amici. Devo confessare che la sera della sua scomparsa, nel silenzio della mia veranda, il suo rullante «assurdo» all’inizio di Start Me Up (l’inizio forse più geniale della storia del rock, e grazie a lui) mi ha fatto scendere una lacrima felice d’infinita ammirazione e di gratitudine.