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Nessuno è vero, viscerale e puro quanto Blanco

Impossibile non esser stati sfiorati anche solo per un attimo dall’idea che Innamorato sarebbe potuta essere la pietra tombale per Blanco.

Giugno 2020. Un amico mi inoltra un link di SoundCloud. Leggo: Ruggine – BLANCO (prod. Michelangelo). Al primo ascolto sono folgorato da quella che sembra essere una demo in presa diretta. Chitarra distorta, interpretazione punk, qualche errorino qua e là, testo che è più una pagina di diario, poi le urla pazze, le risate, un “ancora” che più che a Michelangelo sembra essere una esortazione rivolta ad una folla oceanica immaginaria che riesce a vedere solo lui davanti agli occhi. Le pareti sono venute giù e c’è uno stadio pieno di gente che canta. E poi c’era quella tag ad introdurre il brano… che diciamocelo: era proprio strana, allora. Aprile 2023. Due minuti dopo la mezzanotte. Sono con quello stesso mio amico (ora anche collega) e una serie infinita di ospiti – Mahmood, Giuliano Sangiorgi, Drast, Ariete, Briga, Rhove, Leon Faun, Rancore – al release party del secondo album di quello stesso strano ragazzo della demo.

Proprio tutti sono venuti a tributare il doveroso plauso a quel ventenne. Se non altro per esser stato in grado di trasformare il pubblico immaginario a cui chiedeva “ancora” nella cameretta a petto nudo con il quaderno dei testi in mano, in un pubblico reale. Stavolta sì, oceanico. Perché il disco di Blanco lo stavano aspettando davvero tutti. Lì eravamo pochi, ma fuori da quelle mura in elegante travertino chiaro, c’era praticamente tutta l’Italia under quaranta ad aspettare lo scoccare della mezzanotte. Un album vero, viscerale, puro. Questo è Innamorato, in estrema sintesi. Un disco che nasce cinematografico (Anima tormentata) – con dei drones da trailer hollywoodiano che avevamo già pregustato con L’isola delle rose – e muore in uno strumming di acustica (Vada come vada). Una tracklist che sa cambiare pelle e che nel mezzo fa sfoggio di una certa modernità, riportando sotto i riflettori ritmiche addirittura breakcore (Ancora, ancora, ancora e Raggi di sole). E poi è un disco, ovviamente, che non centellina la quota ballad, che è anzi maggiore rispetto all’esordio (Un briciolo di allegria con Mina, Lacrime di piombo, Innamorato e Vada come vada). Sono delle grandi ballad, a dire la verità, in grado di entrare in testa senza risultare becere o eccessivamente stereotipate.

Quello che tutti attendevano, ossia il feat con la tigre di Cremona, nonché voce femminile più iconica d’Italia, non delude le aspettative, ora esplorando, ora rivisitando, una formula di duetto tutt’altro che scaduta. Eppure – ed è una visione puramente personale – la punta di diamante in questo quartetto è proprio la title track, come era già accaduto con Blu Celeste. Nell’album c’è un po’ di tutto, dicevo, e infatti c’è pure un po’ di quella maledetta synth wave, nella seconda parte del disco, che però al sottoscritto è parso essere il momento più debole (Scusa e Fotocopia). Purtroppo oggigiorno sembra impossibile cancellare o quantomeno limitare la quota Eighties dai dischi, ma è evidente che quell’estetica catchy, fatta di stilemi in grado di essere decriptati da ogni strato della società più o meno devota alla disco, è una sorta di garanzia di successo discografico, un’operazione win-win, seppur quasi mai di successo sul lungo periodo. Ma questa è una personale crociata persa in partenza. Una battaglia morale, come quella di Don Chisciotte, contro i mulini a vento. Impossibile non esser stati sfiorati anche solo per un attimo dall’idea che Innamorato sarebbe potuta essere la pietra tombale per Blanco, visto che i secondi dischi, sono sempre i più difficili. Sono però anche quelli che possono lanciare i progetti nell’iperuranio, e forse è questo il caso.

Difficile dire se la nuova fatica in studio sia superiore all’esordio, ma certamente siamo di fronte ad un lavoro in grado di mescolare le carte senza perdere i marchi di fabbrica che hanno reso grande Blanco. Con un repertorio così tanto “stadiabile” (questo neologismo lo coniò Maurizio Carucci degli Ex-Otago in una nostra chiacchiera, anni fa, riferendosi a Marassi) sarà bellissimo assistere ad uno show nella cosiddetta Scala del calcio, come anche nella casa capitolina di Lazio e Roma. Immersi in quell’Oceano che un giovanissimo Riccardo Fabbriconi aveva visto. In quella calda estate 2020. Prima che il temporale punk (nell’attitudine, prima ancora che musicale) esplodesse sopra le teste di ognuno di noi. E che dà la sensazione di non essere stata solo una pioggerella passeggera. Lunga vita ai sognatori, dunque. Lunga vita ai pazzi. Agli ossessionati, ai sinceri. Lunga vita ai coraggiosi. Lunga vita a Blanco, e a tutti quelli come lui. Viscerali fini al midollo, innamorati dell’arte, finché morte non li separi.