«Mi sto aggrappando a questo tour con tutte le forze, perché lo desideravo da tantissimo – mi racconta Galeffi, quando lo incontro per parlare del suo Belvedere Tour in partenza stasera Roma. «In questo lavoro, il patto che fai con te stesso, con la vita e con la musica, è quello di sacrificare tante cose. Questo sacrificio viene ripagato proprio durante i live. Spotify è un cosmo digitale nel quale esistere, ma non è sufficiente. Sono quattro anni che non suono e più che sentirmi emozionato, da parte mia c’è la curiosità di vedere come e quanto io sia cambiato sul palco. Voglio rendermi conto di come questi quattro anni pesantissimi mi abbiano trasformato. Umanamente, mi sento invecchiato, ma nessuno è rimasto indifferente alla pandemia. Chi fa musica è stato sicuramente più penalizzato da un punto di vista emotivo. È come se avessi pagato tantissimo questo karma e adesso debba finalmente ricevere anche io (ride ndr.)». Era il 2020 quando il cantautore romano pubblicava il suo secondo album di inediti, Settebello, senza riuscire a portarlo sul palco. «Tendenzialmente quando una collettività vive dei momenti pesanti, si finisce per essere più stimolati. Non da subito, perché la mia prima reazione al lockdown è stata sicuramente di torpore e depressione. A luglio mi sono rimboccato le maniche e ho ricominciato a dedicarmi alla scrittura».
In quel momento è nato l’embrione di Belvedere, la sua ultima fatica discografica, nonché un progetto di alta qualità che mescola leggerezza e malinconia e che vuole essere a metà tra una carezza e un pugno nello stomaco. «Belvedere è un disco di qualità piuttosto alta, magari qualche anno fa non sarebbe stato nemmeno presentabile ad una discografica. Mi avrebbero potuto dire: Marcolì, meglio fare un pezzo con la cassa dritta. Oggi noto più rispetto per l’identità di un artista e una maggior attenzione nella ricerca di talenti da parte degli addetti ai lavori. È complicato stare nel mercato, ma più semplice per chi non vuole fare le stesse canzoni. Il rischio mi piace tantissimo, mi arrapa mettermi in discussione». Durante la sua lavorazione, Galeffi ha pensato di unire il cantautorato pop più tradizionale a quello francese, creando una serie di contaminazioni inaspettate e perfettamente riuscite. «Ho scritto Dolcevita e mi sono accorto che strizzava l’occhio alla Francia e che avrebbe potuto assomigliare tranquillamente ad un pezzo de L’Impératrice o degli HEIR. Così ho avuto l’idea di mescolare con cura il cantautorato italiano a quello francese, con tutte le sfaccettature di quest ultimo. Nell’album si trovano pezzi come Un sogno e Due girasoli che sono due valzer antesignani rispetto al progetto, Malinconia Mon Amour rappresenta proprio il mondo psichedelico degli HEIR, mentre San Francisco ha un sound quasi zingaro. Poi troviamo le ballatone italiane che fanno parte del mio DNA e mi vengono più naturali. D’altronde non posso buttarle via, se mi escono fuori».
Gli ricordo la primissima volta in cui ho avuto il piacere di sentirlo dal vivo, durante il MI AMI 2018. «Avevo suonato alla Collinetta, non avevo mai visto così tanta gente al MI AMI. Avrei voluto fare l’amore con tutti in quel momento. Dopo di me, quel giorno si sono esibiti i Coma Cose, Frah Quintale e Willie Peyote. Stiamo parlando di artisti che qualche anno fa avresti ascoltato in un unico pomeriggio a trenta euro, mentre oggi per vederci tutti e quattro insieme devi trovare quattrocento euro». Ricorda con nostalgia quei momenti che hanno indubbiamente segnato il percorso evolutivo della musica italiana. «Sono fiero di esserci ancora ma dopo quattro anni, oltre alla pandemia, sono cambiati i gusti musicali di chi la consuma abitualmente. Non ti so dire se per colpa delle discografiche o per via del pubblico, ma la musica è cambiata. Nel 2018 l’indie era la nuova linfa e sentivamo una grande responsabilità, poi tutto si è trasformato. Ha iniziato ad andare di moda altro e noi abbiamo dovuto modificarci. Ne parlavo un po’ di tempo fa con Niccolò Fabi: se penso a quella scuola generazionale di cantautori, loro hanno avuto più tempo per sbagliare e poter capire che strada intraprendere, mentre noi abbiamo avuto due anni e poi ci è stato tolto tutto. È stato difficile abituarsi al primo strappo positivo e poi a questa moda che è crollata. Penso a Gazzelle che fa un featuring con Night Skinny: fino a qualche anno fa, una cosa simile non era concepibile. Si è persa quella poesia che aveva permesso a te che eri venuta al MI AMI per sentirci, di pensarci come quelli che avresti ascoltato per tutta la vita».
Adesso è tempo di tour con una formazione pressoché invariata fin dai tempi di Scudetto, ma con alcune modifiche: «Sono cambiati due elementi, tra cui l’ingresso di mio fratello. È molto romantica come storia, veniamo da una famiglia umile e per i nostri genitori è una grande soddisfazione vederci lavorare insieme. I pezzi di Belvedere ci saranno tutti, oltre a quelli di Settebello che non ho mai avuto il piacere di cantare dal vivo e le canzoni più note di Scudetto». Un disco, quest’ultimo, al quale è ancora fortemente legato e che gli ha sicuramente portato fortuna. «Oggi non lo pubblicherei mai, ma questa magari è anche la sua forza. Le canzoni sembrano dei provini. Il giorno in cui smetterò vorrei che mi si ricordasse come qualcuno che ha fatto della bella musica». Prima di salutarlo e di alzarmi dal divanetto sul quale credo di aver appena fatto una seduta psicanalitica, mi chiedo cosa veda affacciandosi dal suo belvedere personale. «In questo mestiere si fanno tante riunioni sul futuro, ma io voglio solo godermi tutto quello che mi attende a breve. Con Scudetto c’era l’ansia del non aver mai fatto qualcosa di simile, dato che fino ad un mese prima della sua uscita consegnavo pizze. Mentre registravo Belvedere, mi sono chiesto: ma che ci sto a fare qui? Di base non è bello sentirsi un pollo da allevamento, che sta a scrivere canzoni tutto il giorno, ma non può comunicare con il suo pubblico».