Poche sensazioni, nella vita di un cinefilo, sono frustranti come l’incapacità di apprezzare un capolavoro. Bones and All, ultima fatica di Luca Guadagnino, è troppo recente per essere già definito un capolavoro, ma l’accoglienza entusiastica a Venezia, le ottime recensioni e il feedback immediatamente estatico della cinefilia dovrebbero bastare a riconoscerlo come uno dei film migliori dell’anno – se non addirittura degli ultimi anni. Per chi scrive, questo entusiasmo è purtroppo incomprensibile. Bones and All l’ho visto a Venezia, prima di sapere che sarebbe stato salutato come un’opera grandiosa, e sono uscita dalla sala con la convinzione che sarebbe al contrario stato accolto come un passo falso nella filmografia di Guadagnino. Un lavoro esteticamente ottimo ma concettualmente vacuo, banale e spesso ridicolo, scritto in modo così bislacco da poter accontentare giusto un pubblico di adolescenti. Ahimè, sono stata clamorosamente smentita. Una premessa è necessaria, ed è probabilmente anche la spiegazione della mia evidente incomprensione del film. Apprezzo molto Luca Guadagnino da un punto di vista tecnico, ma il suo stile e la sua poetica sono probabilmente troppo lontani dalla mia sensibilità. Anche nel caso di Call Me By Your Name, opera unanimemente considerata struggente, mi sono trovata ad ammirare il comparto estetico senza riuscire a comprendere come la normalissima storia di un risveglio sessuale potesse scatenare nel pubblico una tale commozione.
Guadagnino è un regista che vive di emozioni, sensualità ed erotismo, ma Bones and All, a differenza di altri lavori in cui la narrazione è affidata quasi solo alle atmosfere, è costruito su un intreccio più strutturato: la trama si muove tra il road movie, l’horror e il romanzo di formazione ed è – a mio parere – scritta molto male. I protagonisti, più che due personaggi, sono due stereotipi: un Timothée Chalamet in versione fanfiction interpreta il classico ragazzo bello e dannato, mentre l’emergente Taylor Russell incarna la sua controparte candida e tormentata, scritta in modo talmente poco credibile che allo spettatore risulta impossibile, una volta concluso il suo presunto percorso di formazione, provare a immaginare cosa farà nell’inquadratura successiva al finale del film. Ambientato in quegli anni Ottanta che continuano a ossessionare l’immaginario contemporaneo, Bones and All è un aggiornamento glamour di Badlands (Terrence Malick) e delle varie decine di opere su amanti maledetti che sono state prodotte negli ultimi sessant’anni circa. Figure emarginate, spesso mostruose, che vivono ai confini delle strade e della morale, nel momento in cui sono mostrate nell’atto di amarsi posso creare nello spettatore una struggente fascinazione, in cui l’empatia prende il posto del facile giudizio, ma una condizione necessaria è la credibilità dei personaggi, che nel caso di Bones and All è completamente assente: la scrittura dei due protagonisti, tragicamente condannati al cannibalismo ma in realtà perfettamente in grado di vivere serenamente astenendosi dal consumo di carne umana, è infatti talmente superficiale da far pensare, più che a Il bandito delle 11 o a Natural Born Killers, a Twilight.
Oltre a portare alle estreme conseguenze la propria poetica, in cui il cibo è strettamente legato al sesso e all’erotismo, Guadagnino intende utilizzare il cannibalismo come metafora della condanna all’emarginazione, con un dichiarato riferimento alla condizione della comunità queer negli anni Ottanta – il metodo che usano i cannibali per riconoscersi, per esempio, richiama gli stratagemmi messi a punto dalle persone non cis-etero per creare una comunicazione sotterranea e protetta dal moralismo della società dell’epoca. Il problema è che la metafora, per quanto interessante, rimane pretestuosa: il cannibalismo presenta infatti degli ovvi problemi etici che nel caso della non conformità sessuale e di genere non sussistono, e che nel corso del film compaiono e scompaiono in modo del tutto casuale ed arbitrario. Il rapporto dei due protagonisti con la propria natura, il modo in cui effettivamente vivono questo estremo connubio di cibo e sesso, i desideri e le necessità che li muovono sono inconsistenti come il resto della loro caratterizzazione: credere a queste due figure e alla loro storia d’amore è a mio parere impossibile e, una volta venuta meno la fascinazione sensuale nei loro confronti, rimane una sceneggiatura costruita su una metafora orrorifica priva di senso compiuto, in cui ogni svolta narrativa è un pretesto per arrivare a un finale tanto provocatorio quanto puerile e scontato.