Con ben ottanta milioni di dollari di budget e un incasso di poco più di venti, Amsterdam di David O. Russell è attualmente candidato al titolo di peggiore flop al botteghino del 2022. Perché la formula magica del regista statunitense, composta da un cast all-star e dalla promessa di un disimpegnato intrattenimento, non sta più funzionando? Il cinema hollywoodiano generalista, fatto di grandi attori e di storie avventurose, è da anni in crisi, e il blockbuster è ormai dominio incontrastato di Marvel, DC e saghe varie: a parte rari casi, la sala sembra ormai preclusa a quel cinema d’autore-ma-non-troppo, erede di Zemeckis e Darabont, che fino a un decennio fa si poteva definire «il cinema da Oscar». Questa tendenza si è naturalmente acuita con la pandemia e, prima di Amsterdam, a pagarne le conseguenze al botteghino sono stati titoli come The Last Duel di Ridley Scott (House of Gucci, complice il glamour dell’operazione, ha avuto sorte migliore) e La fiera delle illusioni di Guillermo Del Toro. Ad aggravare la situazione del film di Russell, forse il più mid tra gli autori cult del nuovo millennio, è stata la pessima accoglienza da parte della critica: la nomea di film disastroso, che ha accompagnato l’uscita del film e ha sicuramente contribuito alla diserzione delle sale, è purtroppo più che meritata.
Amsterdam, strano incrocio tra Bastardi senza gloria e un melodramma televisivo, nei suoi ingiustificatissimi centotrentaquattro minuti di durata tocca tantissimi generi, dalla commedia alla spy story, riuscendo ad affrontarli tutti in modo pessimo. Il film inizia come una specie di crime in costume – la credibilità dell’ambientazione fa peraltro sorgere numerosi dubbi sul destino di quegli ottanta milioni – per poi trasformarsi, tra un incomprensibile inserto comico e l’altro, in una storia d’amore e d’amicizia che ha addirittura la pretesa di rifarsi a Casablanca; nella seconda parte, dopo un sostanziale ritorno al thriller di stampo surreale, spuntano delle bislacche connotazioni politico-ideologiche, che nel finale prendono il sopravvento e tentano di infruttuosamente di dare una qualche ragione d’esistere all’intera operazione. Il problema della sceneggiatura non è tuttavia l’assurdità degli avvenimenti, ma l’incapacità da parte di Russell, evidentemente a disagio al di fuori di narrazioni iper-convenzionali, di giocare con i generi cinematografici, con la credulità dello spettatore e con un registro surreale e parodistico. I momenti apertamente trash, la fotografia più che patinata, la regia a tratti schizofrenica e il montaggio estroso fanno intuire una qualche intenzione dietro all’operazione, ma il risultato, più che a James Gunn e al cinema di volontario e riuscito cattivo gusto, fa pensare al Suicide Squad di David Ayer: un’idea divertente, forse anche interessante, ma dall’esecuzione incerta, poco ispirata e nel complesso sconcertante.
A poco serve il cast ultra-stellare, caratteristica irrinunciabile del cinema di Russell: Christian Bale e Margot Robbie regalano qualche momento divertente e autenticamente sentimentale, mentre Anya Taylor-Joy fa inaspettatamente presagire un brillante futuro nella commedia, ma neanche il cameo del mostro sacro Robert De Niro e la solita credibilità di Rami Malek, Zoe Saldana e Andrea Risenborough riescono a sollevare la narrazione dalla soporifera sciattezza che la pervade. John David Washington e Chris Rock, uno più fuori luogo dell’altro, contribuiscono invece a far scadere il tutto, mentre Taylor Swift, sullo schermo per un totale di forse due minuti e mezzo, conferma dopo Cats l’intenzione di prestarsi unicamente a progetti cinematografici scadenti. Si può apprezzare l’intenzione di Russell di uscire dai propri schemi e di regalare al pubblico un film forse più originale dei precedenti, ma Amsterdam, che vorrebbe essere un prodotto camp d’alto bordo, riesce solo a sembrare un minestrone hollywoodiano fatto male.