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I Kasabian all’Alcatraz di Milano non lasciano spazio alla nostalgia

Nel tragitto che mi separa da Milano si fa largo nella mia mente una convinzione da saggezza popolare contadina: è inutile piangere sul latte versato. Ovvero: è inutile andare ad un concerto in cui già si sa che il frontman e voce della band è cambiato – tra l’altro per motivi non collegati a discordie o litigi traumatici – e lamentarsi che non è più come prima. Ciò che è cambiato lo è perché non poteva andare diversamente oppure, se fosse andata diversamente da come hanno deciso di procedere, l’unica strada percorribile sarebbe stata quella dello scioglimento. Quindi se siamo qui vuol dire che I Kasabian hanno retto il colpo provando ad andare avanti. Certo, forse il mio approccio ai “nuovi Kasabian” è più facile perché, per una serie di svariati motivi e coincidenze, in tutti questi anni non ho mai avuto l’occasione di vederli dal vivo nella loro formazione originaria quindi potrebbe (e sottolineo potrebbe) essere un po’ più facile per me il compito. Fatte queste premesse entro all’Alcatraz di Milano consapevole dell’approccio da tenere.

Ed è probabilmente proprio per mettere i puntini sulle i che la scaletta inizia da Rocket Fuel, brano tratto dal loro ultimo disco uscito quest’anno. Serge si presenta sul palco con un ammiccante maglioncino tricolore griffato. È noto che lui abbia origini italiane, non fosse altro perché di cognome fa Pizzorno. Sin da subito fa capire qual è la nuova strada dei Kasabian non lasciando spazio alla nostalgia, instaurando un rapporto empatico con il pubblico e mostrandosi completamente a suo agio nelle vesti di frontman. Ma siccome il passato è lì e non si può – né si vuole – cancellare, il secondo ed il terzo brano della scaletta sono Clubfoot, prima traccia del loro debutto discografico, e Ill Ray, prima traccia dell’ultimo lavoro inciso prima dell’uscita di Tom Meighan dal gruppo. Il che sta come dire: qua siamo arrivati e da lì siamo partiti. D’altronde le scalette dicono sempre molto più di quanto non si pensi. All’Alcatraz fa caldo, molto caldo, e non ci vuole molto perché Pizzorno resti in t-shirt e imbracci la chitarra. Il suono dei Kasabian è rimasto invariato ed è ancora potente e molto preciso: Ian Matthews e la sua batteria sono una vera architrave, anzi, un muro portante che sorregge la costruzione musicale della band senza esitazioni.

Non mancano i brani letteralmente iconici come Days Are Forgotten, Goodbye Kiss e Your in Love With a Psycho che, forse anche un po’ per sdrammatizzare il peso della loro importanza all’interno del loro percorso, vengono mashati con grandi classici come One More Time o Stand by Me. Alla fine saranno diciotto i brani in scaletta per un’ora e mezza di musica senza troppi fronzoli a distrarre. I Kasabian all’Alcatraz portano sul palco una grande lezione, ovvero che reinventarsi per non far scomparire un gruppo non è cosa da poco, come non lo è riuscire a guardare avanti rispettando ciò che è stato. Il concerto si chiude con Fire in cui lo scambio tra palco e pubblico la fanno da padrone a confermare che la storia musicale della band di Leicester è invidiabile e di tutto rispetto.