Presentato fuori concorso durante l’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, Don’t Worry Darling, noto ai più come “il film con Harry Styles”, è l’opera seconda della regista e attrice Olivia Wilde, che aveva esordito nel 2019 con il brillante coming of age al femminile Booksmart – tristemente tradotto in italiano come La rivincita delle sfigate. Accolto con freddezza dalla critica ma ampiamente atteso dal pubblico, Don’t Worry Darling sta già facendo parlare di sé da mesi, non solo per la partecipazione nel ruolo principale di una delle stelle più luminose del pop internazionale, ma anche e soprattutto per il rocambolesco drama che ha accompagnato la produzione e la campagna pubblicitaria del film. Prima è arrivata la love story tra Olivia Wilde e Harry Styles, che ha comportato la chiacchierata rottura del legame della regista con il pluripremiato comico Jason Sudeikis; poi è sopraggiunta la nebulosa faida tra la protagonista femminile Florence Pugh e Wilde, che ha dichiarato di aver licenziato il precedente comprimario maschile Shia LaBeouf, accusato di molestie e abusi, per proteggere proprio Pugh.
Fresco della conversione al cattolicesimo dovuta al Padre Pio di Abel Ferrara (a sua volta presentato a Venezia), si è aggiunto al coro di gossip LaBeouf in persona, che ha difeso pubblicamente il suo dubbio onore facendo presente che il licenziamento è stata un’iniziativa sua e che Wilde voleva anzi tenerlo sul set alla faccia di Florence Pugh. La vincitrice morale della complessa situazione è stata proprio la giovane diva, che, una volta arrivata a Venezia, ha umiliato la regista-rivale facendosi fotografare intenta a bere uno spritz mentre il resto del cast stava partecipando alla conferenza stampa del film. Intanto il web, sotto la bandiera femminista della difesa di Pugh, ha coerentemente deciso di attaccare in massa Olivia Wilde, colpevole di aver mentito alla stampa – cosa a quanto pare inedita per un membro dello star system – ma soprattutto di aver sedotto, corrotto, plagiato e forse anche stregato il povero Harry Styles. Alla luce dell’eccessivo massacro mediatico, è quindi fonte di un certo dispiacere dover rilevare che il secondo film di Olivia Wilde, dimostratasi promettente con la pellicola d’esordio, è davvero un buco nell’acqua. Don’t Worry Darling, visivamente ben confezionato ma assolutamente privo di un qualsiasi tipo di personalità, si inserisce nella corrente dei film a tesi #MeToo, tendenza esplosa con l’interessante Promising Young Woman (Emerald Fennell) e proseguita con titoli più modesti come Last Night in Soho (Edgar Wright), esteticamente bello ma concettualmente povero, e Fresh (Mimi Cave), più intelligente ma dall’esecuzione troppo prevedibile.
La tematica femminista, ben esposta nel film di Emerald Fennell e in altri lavori recenti come Shiva Baby (Emma Seligman) e Red (Domee Shi), era già stata banalizzata dalle pellicole di Wright e Cave, ma mai in modo bieco come in Don’t Worry Darling. Olivia Wilde, partendo da un’idea condivisibile come la condanna alla nostalgia machista di una società stabilmente delimitata dai ruoli di genere tradizionali, costruisce un thriller psicologico blando ed eccessivamente derivativo, che, dopo una prima parte tutto sommato interessante, rinuncia a qualsiasi tentativo di seria analisi sociale per trasformarsi in un plagio adolescenziale di Black Mirror, Matrix e The Truman Show. Unico lato positivo l’ottima performance di Florence Pugh, che finisce però per accentuare l’assoluta inadeguatezza del suo co-protagonista. Le intenzioni e la vera natura del personaggio interpretato da Harry Styles, dato il carattere inespressivo della sua recitazione, costituiscono di fatto il solo aspetto imprevedibile della trama del film.