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Il sortilegio di Thom Yorke, che ipnotizza anche con il repertorio degli Smile

Fasci di luce viola avvolgono lo stage della Cavea romana. Un addetto ai lavori con la torcia apre una strada dal buio del back a Yorke e compagni. Il pubblico è letteralmente in visibilio. Catturato. La nostra psiche è roba loro, in prestito per una coppia di ore. Lui, l’alieno, si inchina, mentre una voce fuori campo accompagna l’inizio allo show. Poi si accomoda al piano, e come Maradona che palleggia all’ex San Paolo nel 1989 con gli scarpini slacciati, si inserisce morbido e delicato sull’intro. Suona il giro ipnotico di Pana-vision e capiamo tutti che non servono fuochi d’artificio o fiamme per stordire il pubblico. Non serve neanche essere l’ultimo a salire sul palco, nah. Troppo più forte di tutti, Maradona, per non calamitare gli occhi dei napoletani. Troppo più forte di tutti, Thom Yorke, per non calamitare gli occhi dei romani, accorsi in serata per vedere lo show degli Smile – il side-project che condivide con Jonny Greenwood dei Radiohead e il batterista dei Sons of Kemet, Tom Skinner.

Com’è allora lo show degli Smile? Beh, è senz’altro qualcosa di diverso dai Radiohead, questo è innegabile. Ed è pressoché antipodale al progetto solista dell’alieno. E allora cos’è? Difficile a dirsi. È uno spettacolo sintetico e puro, come uno squarcio su una tela d’autore. È un momento individuale che ognuno vuole viversi a modo suo. È come se fossi solo con la musica che ti gira attorno e, di tanto in tanto, ti sfiora le braccia. C’è un ragazzo che balla come Ian Curtis sugli spalti, e lì vicino una signora sulla sessantina che sembra essere al Sistina per uno spettacolo di teatro sperimentale. L’offerta musicale è tra le più ampie che mi sia capitato di fruire; c’è l’alternative – certo – ma c’è pure qualcosa di vagamente blueseggiante. Tre anime (all’evenienza quattro, quando a Greenwood, Skinner e Yorke si aggiunge il sax) riempiono l’Auditorium di visioni sonore provenienti da altri pianeti, da altre epoche. Un momento prima Thom ha il basso elettrico, un attimo dopo ha la chitarra, prima elettrica, poi acustica.

Sta sui synth analogici, poi sul pianoforte classico e nel frattempo si abbassa per settare distorsioni, riverberi e delay al suo strumento, sfiorando avidamente i potenziometri delle pedaliere. È una performance a tutto tondo. Nessuno si sarebbe sorpreso se ad un tratto Thom, Jonny o Tom avessero iniziato a lanciare in aria sfere colorate oppure a fare piroette. Loro sono lo show. Loro sono la performance. E allora non importa conoscere a memoria tutti i testi – lo stesso Yorke ad un tratto ironizza chiedendo, in un italiano tutto sommato accettabile, il leggio dalle quinte, perché non ricorda le parole del brano che sta per eseguire. Quello che veramente conta, è aderire all’esperimento e lasciarsi immergere nel flusso di cose che succedono senza che noi dall’altra parte possiamo provare a prevedere. È un mare magnum fuori controllo, fatto di espedienti totalmente inediti per il mercato mainstream. Niente Karma Police, stonerebbe in questo contesto. E non è blasfemia, è la pura verità.