dark mode light mode Search Menu
Search

Con “Dance Fever” dei Florence + The Machine si balla per restare a galla

Non è difficile elencare le tendenze che fin dagli esordi caratterizzano lo stile dei Florence + The Machine: la sovrabbondanza di barocchismi, con arrangiamenti solenni e centralità delle scenografie e delle coreografie, è riuscita negli anni ad elevare la figura di Florence Welch a divinità. Ad una sorta di Madre Natura la cui religione si identifica con la musica. Ma già da How Big, How Blue, How Beautiful e High As Hope si può intravedere l’inizio di un processo di esorcizzazione, un allontanamento dai fasti esagerati e dal caos, per avvicinarsi alla vita terrena, più fragile, più intensa. Ebbene, con Dance Fever i piedi toccano la terra: un disco dalle sonorità più essenziali – grazie alla produzione di Jack Antonoff e Dave Bayley – dove la cantautrice britannica affronta i suoi demoni e tenta di riorganizzare il disordine.

In Back In Town e Morning Elvis è il blues a cullare le parole nostalgiche, Girls Against God, pur avendo un testo aggressivo, è dolce e malinconica, mentre The Bomb è una confessione intima cantata con delicatezza. Poi c’è Free, un pezzo synth-pop dagli echi springsteeniani che suona come un grido di liberazione dall’ansia e dalla depressione, e My Love, in cui viene narrato, attraverso sonorità dance, l’amore verso il proprio lavoro, verso la propria arte – un amore che supera gli altri, ma che per questo rimane incompleto. In Dance Fever c’è una consapevolezza maggiore di chi si è, non solo a livello artistico, ma anche a livello personale. Non si tratta più della celebrazione di una dea anzi, il personaggio che Florence si è creata negli anni viene quasi deriso, dando spazio alle domande e alle paure che accomunano ogni essere umano. Proprio per questo motivo il disco suona come una sorta di favola inquietante, una preghiera mitologica utilizzata come espediente per raccontare ciò che è frutto di un viaggio introspettivo e di un’autoanalisi durata tutto il tempo del lockdown. E se è vero che non ci si rende conto del valore delle cose finché non le si perdono, Florence Welch – che stava meditando un ritiro dalle scene temporaneo – ha capito che il suo posto è sempre stato il palco. E in King questo aspetto entra in contrasto con le esigenze di vita mondana, con la voglia di maternità che non trova spazio nel regno della creatività e del successo, una sfida alle aspettative sociali e una presa di posizione contro gli ideali di femminilità che troppo spesso vogliono essere soddisfatti.

Insomma, Dance Fever è un album che trasuda rabbia e sofferenza causate dalla pandemia. Parole che scorrono in maniera poco velata lungo la maggior parte dei brani, specialmente in Cassandra. La “dance fever” del titolo corrisponde alla coreomania, la piaga del ballo, un fenomeno medievale d’isteria collettiva che costringeva le persone a danzare fino alla morte. Un concetto insolito, perché per Florence Welch la danza è stata una salvezza ma d’altronde, il lockdown l’ha costretta a ballare da sola, lasciando che la sovrapposizione di corpi che danzano in maniera frenetica fosse solo un ricordo. Il ballo è allo stesso tempo salvezza e rovina dell’essere umano, ma per la cantautrice ha un potere enorme. E in Choreomania, il brano più evocativo e rappresentativo del disco, questa idea è fondamentale.