Marianna Mammone – in arte BigMama – è una rapper originaria di Avellino che, a colpi di attitudine e tecnica, sta cercando di imporre il proprio discorso all’interno della scena hip hop nazionale. Grazie al suo stile unico e ad un personaggio inconfondibile è riuscita, infatti, a guadagnarsi l’attenzione di Crookers (Massimo Pericolo, Bresh, Fabri Fibra) che, insieme a Riva e i B-Croma, l’ha guidata nella realizzazione del suo debutto discografico, Next Big Thing. «Io e Crookers ci troviamo sempre d’accordo sulle idee musicali che mettiamo sul tavolo. Quello che mi piace di lui è il fatto che sia molto propenso alla sperimentazione, esattamente come lo sono io. Non molti hanno il coraggio di osare in questo senso», mi dice. BigMama, oggi tra i dieci artisti scelti da Spotify per la campagna Radar, si racconta e lotta ogni giorno – per sé stessa, prima ancora che per gli altri – contro il body shaming, l’omofobia e il sessismo. Il tutto senza certo cercare di farsi portavoce di questi temi, bensì per il primitivo bisogno di raccontarsi. «Io ne parlo perché questi sono temi che vivo sulla mia pelle, non ne parlo per mandare un messaggio specifico, né tantomeno per attirare l’attenzione. Io voglio fare musica e penso a fare questo».
Ad un certo punto, Marianna ha realizzato che questa avrebbe dovuto essere la sua vita e che, in fondo, la sua storia riguardi un po’ tutti noi – in quella continua e quotidiana ricerca della propria strada, del proprio posto nel mondo, che si consuma nell’esercizio delle proprie passioni, dei propri hobby, delle proprie inclinazioni. «Un giorno ho capito che grazie alla musica potevo essere al centro dell’attenzione, senza di essa non ci riuscivo o comunque non pensavo di meritarlo. Quando ho iniziato a scrivere, ho notato che le persone mi trattavano in maniera diversa e a quel punto ho capito che volevo davvero fare quello». Il trasferimento da Avellino a Milano, mi spiega, è stato una sorta di passaggio fondamentale. «Ad Avellino sentivo molto il giudizio degli altri, mentre a Milano è totalmente diverso, la gente è troppo impegnata a fare altro. A livello musicale, poi, è cambiato tutto perché ad Avellino non esistono realtà musicali volte ad investire su un progetto. Non esiste collaborazione, è una sorta di tutti contro tutti. A Milano, invece, tutto questo non c’è». Mi chiedo quanto sia difficile affrontare tutto ciò in un ambiente come quello hip hop, che per ragioni culturali è spesso soggetto ad accuse di machismo e atteggiamenti affini. Un universo che, dopotutto, non è nient’altro che vittima della cultura nella quale si ritrova immerso.
«Il rap è un genere molto cristallino – mi dice – e non fa altro che rispecchiare quella che in fin dei conti è la realtà. Molti rapper vivendo una realtà maschilista alla fine si ritrovano a parlare di ciò, usando quindi un certo tipo di linguaggio. Sicuramente le donne sono molto influenzate da questa visione della realtà e si tratta di un problema di natura culturale». Motivo per cui poche donne nel corso degli anni si sono cimentate nella nobile arte del rapping attiva nel nostro Paese, la quale spesso, anzi, le ha viste escluse a priori o semplicemente non ancora preparate ad essa. «È importante premere sul fatto che il rap femminile sia sempre esistito in Italia. Credo solo che in passato molte donne non siano state in grado di farsi avanti perché abituate a pensare di non poterlo fare. E non credo nemmeno che ci debba essere una distinzione tra rapper maschio e rapper femmina. Se un rapper è bravo, è bravo, e questo va al di là del genere». Sugli elementi principali per la composizione della next big thing del rap italiano, sostiene che il carattere vada oltre il talento, la scrittura e la voce. «Per spiccare devi avere un personaggio forte. Io, per esempio, ho molta voglia di fare e questo può essere un altro fattore. La costanza, unita al carattere – e a tanti altri fattori – ha bisogno poi di un unico grande denominatore comune: la fortuna».