Il ritorno dei concerti, quelli in cui si balla e ci si abbraccia, non è più un ricordo lontano, ma ora è reale. Due anni di stop forzato non hanno fermato gli artisti che nel lockdown hanno trovato un momento di riflessione e di ricerca interiore; due anni che hanno contribuito alla realizzazione di nuovi progetti segnando la rinascita personale e musicale di molti di loro. È il caso di Mannarino, reduce dal successo del suo quinto album V, che ora si prepara a esibirsi nei club. Un album quasi pronto prima della pandemia, come lui stesso mi racconta («Ho avuto un anno in più per lavorare, il disco era quasi finito, ma ho colto questo periodo come una possibilità per dare di più»). Mannarino è cambiato ed è pronto per ritornare sul palco. Un tour che si è fatto desiderare, già pronto nel 2020 ma rimandato forzatamente; l’ultimo live del cantautore romano, infatti, risale al gennaio del 2020 quando venne invitato a Parigi per suonare al Museo d’Orsay in occasione della rassegna dei Curieuses Nocturnes. «La Francia, non posso dimenticare il prestigio per essere stato lì, sentivo addosso la sensazione di suonare in un luogo importantissimo per la cultura mondiale», risponde così Mannarino quando gli chiedo cosa sia rimasto dell’esperienza parigina. «Ma oggi, più di qualunque altra cosa, ho il ricordo di un me stesso diverso su quel palco parigino; subito dopo purtroppo è arrivato il lockdown e credo che i due anni di pandemia mi abbiano cambiato profondamente».
E ora, con la mente e il corpo già proiettati sul palco, l’adrenalina di ritornare a suonare dal vivo non si nasconde più: «Ho fatto una mia ricerca personale forte che inevitabilmente è rientrata anche nel disco e ora, questa mia ricerca interiore, la poterò anche nei live. Stare per molto tempo lontano dal palco mi ha fatto iniziare una ricerca su me stesso che mi ha segnato e portato a una rinascita; da questa consapevolezza è nato un album che per me suona come se fosse il mio primo disco». Si, perché in V si sente, sin dalle prime note di Africa (prima traccia dell’album,) un Mannarino diverso dai dischi precedenti; registrato tra New York, Los Angeles, Città del Messico, Rio De Janeiro, l’Amazzonia e l’Italia e il coinvolgimento – su alcuni brani – dei produttori internazionali Joey Waronker (Beck, R.E.M., Atoms for Peace) e Camilo Lara (Mexican Institute of Sound) oltre che di Tony Canto e Iacopo Brail Sinigaglia, l’album è un invito ad appellarsi alla saggezza ancestrale degli esseri umani: «Quello a cui mi riferisco è una saggezza, un sapere ancestrale che viene proprio dalla memoria del DNA; cioè, quando tu sai che quella è la scelta giusta e sai quello che devi fare, in realtà non lo fai perché ti è stato insegnato che devi comportarti in un certo modo, quindi pensi invece di sentire. E questo per me è un tema importantissimo che è quello dell’educazione».
Gli chiedo se l’istinto per lui primeggia sul pensiero: «Siamo convinti che il nostro pensiero sia realmente il nostro, ma in realtà non è così, siamo spugne costruite che nascono sopra uno scoglio gigante che le plasma – la nostra società. Tutta la storia della filosofia occidentale, il positivismo, il cattolicesimo ci formano, poi noi in realtà pensiamo e agiamo in base all’educazione che abbiamo avuto in famiglia. Per me liberarsi da questo pensiero significa sentire e questo sentire per me è il linguaggio del corpo». Ed è vero, perché ascoltando il disco la voglia di ballare non si contiene, come se si fosse posseduti da uno spirito liberatore, merito anche della scelta musicale che si è spostata, in alcuni brani, sull’elettronica: «In quest’album i suoni contribuiscono quasi come una pozione magica per l’inconscio. Infatti, oltre agli arrangiamenti ho usato proprio i suoni naturali: ci sono le voci degli indigeni reali registrate in Amazzonia, ci sono dei suoni presi dalla natura e anche l’elettronica è usata in modo che possa arrivare e parlare a quella parte irrazionale. Questo vale anche nella struttura delle canzoni». Poi mi spiega meglio questa cosa della struttura delle canzoni: «La voce è la protagonista sempre, anche di questo concerto: sia la voce che il tamburo. Voci e tamburi, perché i tamburi sono voci per parlare da lontano; un talking drum, il primo telefono dell’umanità, che veniva usato per comunicare a distanza. Ritmo e voce, la voce è lo strumento più antico. La mia voce racconta me, ed è cambiata negli anni così come sono cambiato io».
Tra le nuove canzoni, quella a cui è più legato è quella che chiude il disco, s’intitola Luna e – racconta lui – si è scritta da sola. «Mentre la scrivevo mi venivano in mente immagini, anche di guerra. Ci sono tante cose dentro». Perché Luna riporta alla mente immagini concrete di concetti astratti; sembra di vedere un uomo, nella sua piccolezza, seduto nella natura a parlare con l’universo. «Nel disco c’è un luogo e un tempo inventato, non c’è nulla di filologico, cioè non c’è una ricerca sull’Africa o sull’America in particolare; è una commistione anarchica di un sogno tribale, a raccontarsi è l’umanità. Non come turisti della tribalità, non come se fossimo a un safari in cui si scattano foto, ma raccontare proprio la nostra visceralità; la nostra storia di esseri umani è molto più lunga di quella che noi chiamiamo civilizzazione, civiltà».