Nella scena che – in modo improprio ma estremamente pratico – definiremo rap, è sempre più raro rimanere sorpresi: ascolto venti secondi di un brano e capisco già dove andrà a parare. La musica di Deriansky, ma in generale quasi tutti i prodotti di Asian Fake, sono stimolanti perché invece è come se ci si trovasse improvvisamente in uno spazio aperto ed inesplorato. È come quando vedi per la prima volta Climax di Gaspar Noé o Dogville di Lars von Trier: inizi a chiederti come hai fatto fino a quel momento a vedere il mondo attraverso così pochi paradigmi. Ed ecco allora che entra in gioco questo giovane artista, in grado di sorprendermi ogni volta, almeno due o tre volte, in un brano di pochi minuti. «Mi sono sempre piaciute le evoluzioni inaspettate – mi dice – sia nei film, che nella musica, che nella vita in sé. Credo sia anche una sorta di approccio personale, sento la necessità di cambiare spesso e di innestare il tutto in un Frankenstein di emozioni. Ascolto tanta musica diversa e cerco di cogliere tutto ciò che mi piace da una specifica traccia: credo sia questo il senso della mia eterogeneità. Poi c’è Asian Fake che mi ha aiutato molto nell’organizzazione e nell’uscita del progetto, in questi due anni mi hanno fatto imparare molte cose. Filippo Palazzo (CEO Asian Fake ndr.) ha capito esattamente cosa voglio comunicare».
C’è poi un altro problema che generalmente mi porta a screditare i progetti emergenti, ossia la poca coerenza tra sound, liriche e visual. Quello di Deriansky invece è estremamente a fuoco, al netto dell’eterogeneità di cui diceva poco fa. «Il mio immaginario potrebbe sembrare un riflesso di un mondo fantastico, ma in realtà si rifà molto alle dinamiche della realtà che circonda me e tutti quanti. Credo che un immaginario sia difficile da spiegare, soprattutto da chi lo crea. Va vissuto e approfondito per capirlo appieno, come tutto. Il mio intento è quello di fornire un accesso a questo mondo, nella speranza che, entrando, quanti più individui possibili possano conoscere il mondo attraverso le mie lenti». Gli chiedo dunque che ruolo ricopre Nic Paranoia in questo costrutto. «Con Nic collaboro da diversi anni – mi risponde – lui sapeva da tempo quale sarebbe stato il mood del progetto. Pensa che ne parlavamo ancora prima che uscisse il disco precedente, QHOLLA. Il suo ruolo è di grafico, direttore artistico, consulente, designer del merch, ideatore della parte visiva per i live. Insomma Nic condivide tutti gli stadi che può avere il mio progetto. Inoltre ci catapultiamo in situazioni al di fuori del lavoro che ci ispirano reciprocamente. Tutto questo per me è fondamentale».
Mentre parliamo, non riesco a trovare appigli, similitudini. Deriansky è fuori da ogni preconcetto, dogma o regola. Per quanto diverso formalmente, il suo progetto mi ricorda vagamente solo il punk-jazz di King Krule, mentre il linguaggio visivo che più gli aderisce è quello di Lynch. A livello di parole – visto che i brani hanno titoli scritti in una lingua tutta sua – mi ricorda Arancia meccanica di Burgess, ma la poetica è di Kafka. Insomma tanti nomi, ma pochi punti reali di contatto. «Parlare di ispirazioni è molto complesso. Ci sono diverse fonti in molteplici campi. Credo che sia molto importante prendere spunto da varie cose per crearne una nuova. Lynch e Kafka sicuramente sono stati d’ispirazione per la creazione del linguaggio dell’immaginario, quindi hai centrato il mood, ma è tutto ispirazionale per me, non c’è un filone, una corrente, un riferimento nitido». Gli chiedo cosa lo porta a scrivere. «I brani nascono in primis dall’esperienza, il secondo passaggio per me è l’analisi, poi arriva la stesura della base e il testo, invece, viene concepito successivamente», spiega. «Questo è il mio modus operandi, ma a volte un brano si può creare in modo totalmente diverso. Per Padelle, ad esempio, la base è nata in 40 minuti prima di andare a lavoro, poi nello stesso pomeriggio ho reccato la strofa scritta durante la giornata, quindi super fast e genuina. Legno è stata invece costruita in diverse fasi: la produzione ha richiesto più giorni per ottenere il mood giusto, il testo è arrivato molto dopo».
Alla base di tutto ciò credo ci sia la viscerale necessità di raccontarsi per esorcizzare certe paure. In uno scenario che cerca di nascondere le cose meno fotogeniche e patinate, in favore di una realtà distorta, Deriansky pubblica un progetto, Qonati, che mette sotto i riflettori il suo disagio fisico e psicologico. I conati, sono quelli con cui ha dovuto fare i conti durante una difficile parentesi che lo ha visto lottare contro problemi di salute. Insomma, un mettersi completamente a nudo. «Dovevo farlo, ne sentivo l’esigenza e mi è uscito naturale trasformarlo in musica, dato che è quello che faccio tutti i giorni – mi dice – Sicuramente la pressione è tanta perché ciò che stai pubblicando è la tua personale interpretazione della realtà, sia tua che esterna, e nel mondo esistono punti di vista differenti e sconosciuti che potrebbero un giorno farti cambiare idea. Ci sono stati dei down importanti che mi hanno poi però stimolato a fare meglio. Fare musica è come guardarsi allo specchio e scoprire le cose solo mentre le fai. Infatti Qonati è stato un percorso personale di crescita, non solo un disco che rappresenterà sempre in modo specifico questo periodo della mia vita».