Londra, pomeriggio di un sabato di inizio aprile. Negli occhi ho ancora la meraviglia della vista dall’alto della città, durante il tour della mattina, terminato con un giro sul London Eye. Prima dell’appuntamento della sera ci concediamo una pausa, in perfetto stile inglese. Entriamo in un pub già pieno di ragazzi seduti ai tavoli di legno. Sorridono illuminati dai raggi del sole che filtrano dalle finestre, attraversando bicchieroni di birra dorata. «Due medie anche per noi». Sam Fender sarebbe fiero, penso. D’altronde, vi è mai capitato di visitare il suo sito? Come icona di attesa non troverete la classica clessidra. Troverete, invece, una bottiglia di birra che gira come una lancetta impazzita e richiama proprio la cultura dei locali di North Shields – la sua città natale – e di tutto il Regno Unito. Tra un sorso e l’altro, parliamo di quanto sia stato sorprendente riuscire a prendere due biglietti per una data sold out da mesi, aggiunta al calendario per i ticket andati a ruba già per quella della sera prima. Ne ha fatta di strada il ragazzo dal giorno in cui venne scoperto al Low Lights Tavern – a cui è seguita quast’anno una sfilza di premi: Best Rock Alternative Artist ai BRIT Awards, Best Album of The Year con Seventeen Going Under (pubblicato a due anni di distanza dal disco di debutto Hypersonic Missiles) e Best Song of The Year con la title track per NME.
«Altro giro?». «Ok, ma poi torniamo in stanza». Le cose sono andate esattamente così, con la sola variabile di una pausa un po’ troppo prolungata. Metti la stanchezza, metti (soprattutto) un calcolo poco preciso delle pinte tollerabili. Riapro gli occhi, afferro il cellulare: non ce la faremo mai. Non so se Superman si sia mai trasformato all’interno delle tipiche cabine telefoniche inglesi, ma in questo caso è come se fosse successo. Per la fretta e lo spirito di sopravvivenza, non ricordo neppure il tragitto verso l’arena. Invece, ricordo benissimo il viale illuminato di Wembley Park che si staglia di fronte, all’uscita della metro. «Continuate fino in fondo e poi seconda porta sulla destra», ci dice lo steward. Quella seconda porta sulla destra non è stata soltanto la certezza di aver compiuto un’impresa pressoché impossibile, ma anche il passaggio ufficiale verso un mondo che si sta riavvicinando a ciò che eravamo abituati a vivere. È come svegliarsi da un incubo, riaddormentarsi ed essere catapultati in un sogno. Il sogno di chi non può allontanarsi troppo da quelle vibrazioni dal vivo e quello di un ventottenne, soprannominato per l’accento Geordie Boy, che sta per salire sul palco. Si spengono le luci. Batteria oltre il muro del suono per il primo pezzo, We Will Talk, manifesto di un dialogo aperto, di una conversazione che tratta di vite che si intrecciano nella notte, di balli che riconciliano, di occhi che si chiudono e immaginano albe migliori.
Nonostante la sua giovane età e lo spirito ironico che esplode soprattutto durante le interviste e sui canali social, Sam Fender attinge ben poco dal britpop inglese di matrice più scanzonata. La sua penna descrive scene precise, disegna immagini evocative che riportano nei dettagli solo ciò che vede, solo ciò che succede: chiacchierate con un amico, l’incontro con vecchi, la rincorsa a quel tipo di rivincita che può asciugare le lacrime di una madre, il conto delle domande che supera sempre quello delle risposte. L’importante è provare, iniziare. Getting Started scalda ancora di più il pubblico grazie alla comparsa di un ospite speciale (per i locals sicuramente, qui c’è chi ha dovuto approfondire). Francis Bourgeois entra in scena cavalcando il suo monopattino, con tanto di simil GoPro in testa per assicurare l’effetto di distorsione che l’ha reso il famoso video influencer da 1,5 milioni di follower. Poteva Sam Fender lasciarsi sfuggire l’occasione per indossare la telecamera dagli effetti esilaranti? Certo che no – trovate il video su Instagram. La divertentissima sorpresa, apprezzata soprattutto dai tantissimi millennials, si posiziona sulla scaletta in complementarietà con Dead Boys, il brano che ha acceso il faro sulla promessa d’oltremanica dopo la firma del suo primo contratto discografico.
Sugli schermi si aggirano delle ombre che camminano in una città in bianco e nero. Sono ombre che racchiudono una tematica forte, impegnata ed impegnativa, storie vicine all’autore spezzate dal suicidio, lungo le stesse strade dove egli è cresciuto. È proprio attraverso l’empatia di questa canzone che numerosissimi ragazzi si sono avvicinati alla musica del loro coetaneo, trovando rifugio, conforto e speranza per un finale differente. L’atmosfera si distende in un velo più dolce e morbido con Mantra e Better Of Me che, assieme ad una The Dying Light eseguita in parte al pianoforte ed impreziosita dalle luci dei cellulari degli oltre 25.000, hanno rappresentato la sessione più acustica del set. Contenute in Seventeen Going Under, queste tracce acquistano un tocco di magia in più nella resa live, facendo scoccare la scintilla del: perché non mi sono accorta prima di quanto fossero belle? Ringraziati i fan per quelle due date a Wembley e per l’enorme affetto sempre dimostrato – «mi sembra ancora impossibile» – Sam non esita a dare l’attacco per quello che è diventato un inno: The Borders. Tutti i paragoni con l’Olimpo del rock americano (Tom Petty, Strokes, The War on Drugs) e, in particolar modo, con Bruce Springsteen (i più audaci hanno anche menzionato Bob Dylan) nascono da capolavori come questo dove ribolle l’urgenza espressiva della working class.
Definizione, quella del working class hero, che non è mai andata troppo a genio al diretto interessato: «Non mi ci voglio aggrappare troppo – ha dichiarato più di una volta – Prima che i miei genitori si separassero, vivevo in una di quelle case a schiera e non era neanche male. Dopo la separazione, è stato tutto più complicato. Gli ultimi dieci anni della mia vita sono molto difficili». Sicuramente, però, all’attitudine iconica del Boss rimandano anche le caratteristiche della band. Sono amici, prima di tutto. E sono musicisti formidabili. Una sezione ritmica al cardiopalma con Drew Michael alla batteria e Tom Ungerer al basso. Un tastierista, Joseph Atkinson perfetto anche per il ruolo di capo ultras: il suo entusiasmo, le sue urla di euforia sono ormai famosissime. Un chitarrista, Dean Thompson, definito come miglior compagno di avventure e punto di riferimento. E poi c’è lui, il sassofonista con il cappello spiovente e la maglia del Newcastle, Johnny “Bluehat” Davis, nei cui assoli riecheggiano le formidabili performance di Clarence Clemons, Big Man: nelle note, nelle sfumature, nei colori delle Badlands, del New Jersey. Tutta la formazione è in grande spolvero per i pezzi più energici ed esplosivi. Su Spice, Fender invita la folla a creare un circle pit – che commozione vederne di nuovo uno – per poi fermarsi, caldeggiando di non rischiare di schiacciare nessuno.
Howdon Aldi Death Queue regala il suo tiro post punk, riconducendo le coordinate geografiche al Regno Unito degli Idles o all’Irlanda dei Fontaines D.C.. La toccante Spit of You, dedicata a tutti i genitori ed in particolare al padre Alan, si trasforma in un carosello di foto che scorrono e si rincorrono sullo sfondo: un promemoria sul dovere morale di sfruttare al massimo il nostro tempo accanto a coloro che amiamo, nell’impegno costante rivolto alla comunicazione, per non annegare in assordanti silenzi. «La mela non cade mai troppo lontano dall’albero – confessa Sam – Più cresco, più mi rivedo in mio padre». Il gruppo si prende una piccola pausa. Mi capita di guardarmi intorno, incrociando le espressioni soddisfatte, eloquenti in un pensiero condiviso: è incredibile il modo in cui tiene il palco. La abilità di intrattenitore non si fanno attendere quando, già dal primo brano dell’encore, Saturday, Sam coinvolge il pubblico, lo fa a cantare, festeggiando così un sabato indimenticabile. Gli accordi acuti e squillanti del mandolino annunciano Seventeen Going Under, stendardo non solo di questo tour ma dell’inarrestabile ascesa dell’artista. È il presente che si si interseca con gli anni dell’adolescenza, con bagagli di sofferenza e disillusione, con ricordi nostalgici e curiosità lanciata al futuro, a quello che verrà. Uno specchio in cui viene spontaneo riflettersi, indipendentemente dal tempo trascorso da quel passato, più o meno vicino, più o meno lontano.
Ecco la chiusura che punta alle stelle, con Hypersonic Missiles, title track del primo disco che fa scatenare la Wembley Arena tra i cori all’unisono di “wooooohooohh woooooohoh”, birre che volano, salti inarrestabili, geyser di fumo alla massima potenza e sciami di coriandoli che scendono sulla folla. Un epilogo in grande stile che custodisce, in quella scelta, anche un messaggio iper contemporaneo (“The tensions of the world are rising higher/We’re probably due another war with all this ire”). Uno dei motivi per cui Sam Fender si configura già come un artista vicinissimo ai grandi, alle rockstar della musica e della vita che fanno della propria arte un ponte per collegare storie e una lente d’ingrandimento per guardare senza paura i propri paesaggi interiori e ciò che, là fuori, non possiamo e non dobbiamo ignorare. E mentre ci stiamo alzando, dopo il saluto finale, il nostro sorriso brilla ancora di più nello scorgere, sul maxi schermo, una bandiera blu e gialla.