Remake di La famiglia Bélier, pellicola francese del 2014, I segni del cuore (CODA nella versione americana) è l’ennesima dimostrazione della patologica avversione del pubblico statunitense verso i film sottotitolati: se l’industria cinematografica ritiene che un soggetto straniero abbia potenzialità di mercato, infatti, trova più conveniente realizzarne direttamente un remake, a una distanza temporale che non fa presupporre alcun cambiamento sostanziale dal film originale, piuttosto che esporre il proprio pubblico alla necessità del doppiaggio, pratica inusuale negli Stati Uniti, o dei temuti sottotitoli. CODA, distribuito in Italia solo tramite piattaforma e con un titolo che ricorda in modo stranamente calzante Gli occhi del cuore di Boris, non può quindi neanche vantare il meritevole primato nella rappresentazione sul grande schermo delle dinamiche di una famiglia di non udenti.
Nonostante questa idea, unico aspetto originale di un prodotto che sembra pensato per il palinsesto televisivo domenicale, sia clonata dal precedente francofono, la scelta del cast non udente è stata indovinatissima: sono infatti di buon livello le interpretazioni di Daniel Durant, di Marlee Matlin e soprattutto del bravissimo Troy Kotsur, attore che è l’unico grande pregio del film e che, forte della vittoria agli Oscar, si spera sia ormai lanciato verso una grande carriera. CODA, di Oscar, ne ha vinti ben tre: meritatissimo quello a Kotsur, opinabili quello alla sceneggiatura e quello come Miglior film. Il dibattito intorno alla coerenza di quest’ultima vittoria, a conti fatti, lascia il tempo che trova: la mediocrità di CODA è infatti talmente evidente che anche il paragone con pellicole contestate come Green Book o Moonlight, accusate più o meno giustamente di essere premiate solo perché politicamente corrette, appare fuori luogo. Green Book è un film visivamente povero ma dotato di una sceneggiatura ottima, per quanto semplice e se vogliamo banale, mentre Moonlight, a prescindere dalla trama, vanta un comparto registico e fotografico di alto livello: CODA, oltre a essere scritto in modo fin troppo semplice, è caratterizzato da una prevedibilità a prova di seienne, che consente agli spettatori di commuoversi ma non di incuriosirsi, mentre non si esagera se si afferma che l’apparato estetico è in linea con gli standard delle fiction di Rai Uno.
È insomma impossibile che i membri votanti dell’Academy non si siano resi conto dell’inferiorità di CODA rispetto al minore tra gli altri nove titoli candidati: il premio è stato consegnato per scopi non artistici ma umanitari, e in base a tali scopi va quindi valutato. In un’edizione prevedibilissima – che ha visto una spaccatura estrema tra i premi tecnici, andati tutti a Dune, e quelli creativi, assegnati in gran parte sulla base di riconoscimenti alla carriera o di meriti di rappresentazione – le premiazioni di Kotsur e della troupe di CODA sono state tra i pochi momenti davvero memorabili, in cui lo smacco alla Settima Arte è stato addolcito dalla gioia nel vedere persone marginalizzate finalmente protagoniste di un ambito che sembrava a loro precluso. Se in una serata che sembrava programmata per celebrare il femminismo l’alternativa è concentrarsi sul machismo di un divo che sale sul palco per difendere l’onore della moglie a suon di ceffoni, allora ben vengano la mediocrità di Sian Heder e la bravura di Troy Kotsur.