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“Caos” di Fabri Fibra ci insegna come l’hype ti si può rivoltare contro

Il ritorno di Fabri Fibra è un evento da cui il pubblico italiano non può prescindere. Un po’ come quanto avviene per il Festival di Sanremo o per i Mondiali di Calcio. Si tratta, insomma, di eventi in cui tutti si ritrovano coinvolti in una maniera o nell’altra, in misura minore o maggiore. Si tratta del ritorno di un artista che per anni ha dettato le tendenze di un genere musicale che oggi comanda le classifiche nostrane, ma su cui, in tempi non sospetti, nessuno avrebbe osato investire un solo euro. Fibra, con il suo inconfondibile stile, ha dimostrato che all’interno dell’industria musicale un cambiamento fosse possibile. Che il rap sarebbe potuto uscire da quella nicchia opprimente, sempre più chiusa in sé stessa, che presto o tardi avrebbe decretato la sua morte. Motivo per il quale le aspettative non possano che essere alle stelle ogni qualvolta si vociferi di un nuovo progetto del rapper di Senigallia. Tuttavia – ed è proprio qui che sta uno dei tanti problemi legati a Caos – la famigerata cultura dell’hype induce a condannare o promuovere un qualsiasi prodotto sul nascere, prima ancora del suo effettivo rilascio. E tutto seguendo un’equazione all’apparenza priva di qualunque errore di calcolo, secondo la quale un disco di Fabri Fibra non possa essere in alcun modo deludente.

Forse, però, è arrivato il momento di ammettere a noi stessi che potrebbe non essere esattamente così. Il Fibra di Caos, infatti, non è neanche lontanamente vicino alla sua migliore versione possibile. Dopo un’introduzione esaltante – segnata dalle note di Intro, baciata da un fantastico sample di Gino Paoli – la buona prova di GoodFellas e la mediocre Brutto figlio di, il disco comincia già a mostrare significativi segni di cedimento. È il caso di Sulla giostra, in compagnia di un Neffa in stile 99 Posse, la quale ci consegna un risultato incerto, appena passabile e a tratti artefatto. Una breve ripresa è scandita prima dalle note di Stelle – definita da un massiccio uso dei synth – e poi da quelle di Propaganda, in cui l’infallibile ritornello di Colapesce e Dimartino non può che strappare ampi consensi da parte di pubblico e critica. Tutto quello che seguirà dopo – salvo rarissime eccezioni – si troverà a metà strada tra la delusione e l’inconsistenza più totali, a partire dalla title track con Lazza e Madame: un brano dimenticabile e piuttosto debole, unicamente sorretto da una buona strofa della vicentina. Ancora nulla di esaltante all’orizzonte, muovendosi fra titoli modesti quali Fumo erba, Demo nello stereo o El Diablo, spesso più simili a veri e propri brani filler piuttosto che a parti integranti della struttura di un album. La ripresa vera e propria, capace di tradursi meritatamente in uno dei migliori brani del progetto, è dettata dal perfetto equilibrio generato da Cocaine, la quale vede la collaborazione di un Gué in perfetta forma e di un Salmo più aggressivo del solito, perfettamente combacianti con la produzione disegnata da 2nd Roof e BretBeats.

Le delusioni, però, non finiscono qui: subito dopo arriva Noia, brano sperimentale sfruttato in maniera a dir poco pessima per l’enorme potenziale dimostrato dalle rispettive strofe di Fibra e Marracash, ma anche dalla spettacolare produzione di Ketama126 – presente anche in Pronti al peggio, brano candidato a pieno titolo tra i peggiori dell’intero lavoro. Passando per Nessuno, in quello che si traduce in un tentativo maldestro e a dir poco forzato di riprodurre una canzone ispirata al sound di un’icona quale Johnny Cash, si giunge finalmente al cospetto degli ultimi risicati highlights, caratterizzati da Liberi con Francesca Michielin e Outro. Insomma, è evidente che qualcosa non abbia funzionato in questa nuova opera del rapper marchigiano, in cui la scrittura sembra tuttavia farsi più intima rispetto ai lavori precedenti. Fabrizio è senz’altro presente all’interno di questo nuovo capitolo ed è persino possibile percepirne i tratti, immaginarne le forme, all’interno di un viaggio che costringe l’ascoltatore ad addentrarsi nei meandri della sua carriera. Forse, però, non era questo il modo più corretto per riprodurre un concept di tale portata. In poche parole, ci troviamo di fronte ad un risultato altalenante e mai pienamente convincente (spesso appena passabile) che rischia di inserirsi con merito fra i peggiori dischi in assoluto del rapper di Senigallia. Perché se è vero che un disco sbagliato può capitare a tutti, è altrettanto vero che un disco targato Fabri Fibra soffre di una responsabilità maggiore.