Presentato durante l’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia e subito criticato, America Latina, terza fatica dei fratelli D’Innocenzo, è uno di quei film per i quali si sente quasi la necessità di prendere una posizione: chi lo apprezza tende a esaltarlo, magari passando sopra a difetti oggettivi, mentre chi lo disdegna è incline a definire spazzatura anche pregi altrettanto obiettivi. Questo dibattito, in realtà, contribuisce ad aumentare lo status del film di prodotto pensato per una generazione più giovane di quella che solitamente si interessa al cinema nostrano, una generazione che consuma abitualmente diatribe social – decisamente poco lusinghiera, ma utile in questo senso la recente polemica che ha coinvolto uno dei due registi – e la cui attenzione si concentra automaticamente su determinate confezioni estetiche. America Latina, sotto questo punto di vista, funziona: i fratelli D’Innocenzo, vestiti Gucci, calcano i red carpet con più divismo del loro stesso attore principale, che proprio perché schivo desta enorme attenzione su ogni suo progetto; le varie locandine del film, il font usato, le immagini diffuse a scopo promozionale, la colonna sonora dei Verdena, lo stesso titolo creano inoltre nel pubblico la percezione di un prodotto attraente, attuale, esteticamente appagante.
Tutti questi elementi sono insomma utili in una prospettiva di marketing, ma non per questo poco validi: la colonna sonora, oltre ad attirare un pubblico più musicofilo che cinefilo, è funzionale alle atmosfere del film ed è soprattutto molto bella, così come l’estetica dell’opera nel suo complesso. America Latina è infatti un prodotto valido prima di tutto in un’ottica registica: i fratelli giocano magistralmente con il fuori fuoco e seguono ossessivamente il loro protagonista, un Elio Germano in stato di grazia, chiudendolo in primi e primissimi piani che aumentano nello spettatore la percezione della paranoia, del disorientamento, dell’emergere di un rimosso disturbante, evocato anche da un lavoro sul sonoro che crea una sensazione perturbante simile a quella del Repulsion di Polanski. La regia ha inoltre il merito di esaltare una scenografia labirintica, perfetta nell’esteriorizzare la confusione del protagonista, e una fotografia che in diverse scene richiama il Bergman di Sussurri e grida e che nel panorama italiano risulta addirittura stupefacente.
Da qui parte la critica più popolare nei confronti del film, mossa anche da molti estimatori del precedente e altrettanto divisivo Favolacce, ovvero che si tratti di un prodotto meramente estetico, tematicamente confuso e autocompiacente. A livello contenutistico, nonostante l’adesione al genere thriller psicologico, il fil rouge con Favolacce è in realtà più che presente, poiché l’indagine impietosa dei registi sul lato più bestiale delle zone rurali italiane si sposta semplicemente su un ceto sociale diverso e sulle psicosi di una diversa figura di padre. La sceneggiatura è in effetti meno solida, ma l’impressione di sospensione e incertezza è frutto di un lavoro di sottrazione che sarebbe stato in realtà da accentuare e non da risolvere: il più grande difetto del film, oltre che l’unico davvero grave, è infatti un voice over finale, aggiunto ottusamente in seguito alle critiche ricevute a Venezia, che dà il contentino al pubblico, regalandogli la rassicurazione di aver risolto il mistero e chiudendo il pensiero su numerosi altri elementi, che rimangono invece giustamente sfuggenti e lasciati all’elaborazione dello spettatore.