Noyz Narcos è quel rapper che negli anni ha delineato dettagliatamente la sua figura artistica sotto ogni punta di vista, fino a rendere riconoscibile ed inconfondibile ogni sua barra, video o copertina. In oltre un ventennio di carriera ha piantato saldamente le Jordan sull’asfalto ed ha visto il rap italiano crescere, ristagnare, evolvere e finalmente esplodere. Mentre tutto questo accadeva lui era lì a dare il suo contributo senza mai scendere a compromessi con le regole che il rap game ed il mercato discografico imponevano. Non basta solo esserci però, è necessario fare di ogni disco una pietra miliare per arrivare ad essere Noyz Narcos e nutrire ogni progetto dell’amore quasi sadico per la cultura hip hop. Emanuele Frasca lo ha fatto in otto album diversi, dal 2005 al 2022, e se qualcuno si dovesse essere perso qualche passaggio della sua carriera, ora può trovare tutto ciò di cui ha bisogno per capire l’eclettico personaggio del White Zombie nel documentario, già culto, di Marco Proserpio Dope Boys Alphabet. Noyz Narcos è un tiratore scelto del rap italiano, un virus senza varianti che si diffonde senza la necessità di cambiare, perché l’unica arma di cui ha bisogno è la sua originalità ed il microfono. Quando si è sotto il suo palco si diventa sue prede e quello che si vede è un rapper che è lì per sparare tutte le sue barre fino a che non ha più fiato in corpo; visiera bassa sopra gli occhi, Persol da sole neri, Jordan Flight appoggiata alla cassa spia e la mano con scritto Roma a stringere il microfono.
Sono passati 4 anni dall’uscita di Enemy, da allora il rap, l’Italia e soprattutto il mondo sono cambiati tantissimo. Cos’è cambiato in te come Noyz e come Emanuele in questo arco di tempo?
Sono stati anni molto intensi e, come hai detto anche tu, sono cambiate molte cose a causa della pandemia. Dopo la chiusura tour di Enemy mi sono dedicato a vari progetti e, in particolare, al clothing (in qualità di direttore artistico ndr.) di Propaganda insieme ai miei collaboratori. Ora abbiamo nuovi uffici e anche uno studio di tatuaggi oltre al negozio. Insomma, ho speso tutte le mie energie su quelli che consideravo degli obiettivi da raggiungere e posso dire di aver lavorato molto su me stesso.
Cosa pensi ti abbia permesso di diventare il Noyz Narcos che conosciamo oggi?
Credo che la coerenza con le mie passioni e con la mia attitudine sia la cosa che mi ha contraddistinto nel tempo e mi ha permesso di restare agli occhi della gente come un punto fermo insieme ad altri rapper che si contano sulle dita di due mani al massimo.
Spiegati meglio.
Ad un certo punto molti hanno visto arrivare una wave ed una nuova generazione di rapper che ci ha lasciati tutti basiti all’inizio, tanto che anche io ho pensato di smettere perché non mi identificavo più in ciò che era diventato il mio genere musicale. Io nel mio non sono mai sceso a compromessi con nessuno e non ho mai strizzato l’occhio a certe nuove tendenze, sono rimasto me stesso perché ero sicuro della mia personale formula di hip hop. Sono convinto che il pubblico abbia apprezzato questa scelta.
Tu nasci come writer prima che Mc, pensi che la provenienza da un ambiente hip hop a 360 gradi possano fare la differenza per rimanere fedeli alla cultura?
Per quanto mi riguarda, c’è un legame profondo con questa cultura, ormai ha da tempo messo radici in me, ha continuato a crescere e credo che sia ciò che ora mi contraddistingue. Fa parte di quella formula di cui parlavo.
Cosa pensi di aver perso diventando Noyz Narcos?
Io ho fatto milioni di lavori diversi nella vita fino a che il mio mestiere principale era diventato il tatuatore, e lo sono stato per più di dieci anni. Questa è la cosa più grande a cui ho rinunciato, ma è stato quasi obbligatorio perchè ero arrivato al punto che i fan venivano a tatuarsi solo per conoscermi e parlare con me. Quando mi sono reso conto che non era più fattibile ho mollato, e mi dispiace averlo dovuto fare. In ogni caso, quando si è trattato di scegliere cosa dovevo fare ho scelto la musica.
Quanto del nuovo disco è fatto per te stesso e quanto, invece, per la cultura?
Penso che entrambe le cose vadano di pari passo. Tanto è fatto per me quanto per la cultura, se è questo di cui parliamo, se parliamo invece di farlo per i fan e per la gente ti dico no, non l’ho fatto pensando a quello. L’ho sempre fatto cercando di condividere il mio percorso personale. Per quanto riguarda la cultura, sia il documentario che l’album ci tenevo che andassero a toccare determinati punti, i featuring di Raekwon (Wu-Tang Clan ndr.) e Cam’ron hanno anche questo ruolo. Volevo portare alla gente tutto quello che è stato il mio percorso e la mia esperienza, soprattutto per spiegare alle nuove generazioni di fan che si sono venute a creare in questi anni, che magari non mi hanno mai visto suonare dal vivo o non sanno nulla del mio percorso passato, quindi era interessante fargli conoscere anche quel lato.
A proposito di Raekwon e Cam’ron, come sono nate queste due collaborazioni?
Ho scelto loro perchè sono tra i miei due rapper preferiti di sempre, fanno parte entrambi di un collettivo molto grande di rapper che, come il TruceKlan, aveva diversi elementi in cui le diverse persone si potevano identificare ognuno nel personaggio che più gli piaceva. Sia il Dipset sia il Wu-Tang avevano il tipo strano, il tipo G, avevano il tipo col flow. A noi col TruceKlan era andata molto simile, ogni personaggio era diverso. Raekwon era il mio preferito del Wu-Tang da sempre e Cam’ron il mio preferito dei Diplomats da sempre, quindi quando sono usciti fuori un po’ di nomi per delle collaborazioni straniere io ho fatto subito i nomi dei miei rapper preferiti. Sono stati entrambi abbastanza faticosi da portare a casa visto che magari uno pensa che una collaborazione nasce facilmente, ma sono mesi e mesi di lavoro, di telefonate e cose. E insomma mi ha fatto piacere anche il fatto che loro si sono voluti interessare molto a chi ero, a dove finivano le loro strofe.
Come ti fa sentire il fatto che l’hip hop nostrano oggi non sia più un fenomeno esclusivamente italiano?
Di questo sono super contento ed era una cosa abbastanza inevitabile. Da anni in altri Paesi d’Europa il genere più ascoltato è il rap, che è più diretto e riesce a toccare tematiche più comuni alle persone, rispetto magari al pop che è pressoché monotematico. Era ora che anche in Italia diventasse il genere di punta. Per quanto riguarda le collaborazioni ho pensato che i tempi fossero abbastanza maturi da accogliere bene dei rapper di questo calibro, rispetto a dieci anni fa quando la gente voleva ascoltare solo rap italiano perché era quella la novità.
In Virus tutto è perfettamente bilanciato: dai ritornelli alle strofe. Come ti orienti generalmente per scegliere chi invitare all’interno dei tuoi dischi?
Quando sento una beat penso automaticamente al rapper che ci vedrei sopra, che sia Gué, Marracash o Luchè. In questo disco ho lavorato molto con Night Skinny, che da produttore ha anche lui questo tipo di capacità e lungimiranza. Abbiamo cercato di fare le scelte migliori per i rispettivi brani insieme.
Di Geolier cosa mi racconti?
Ho conosciuto Geolier grazie a P Secondigliano, mi era piaciuto molto e mi era piaciuta soprattuto l’attitude de sto pischello perché non era il solito rapper sbruffone. Lui si presenta come il tipetto coi baffetti, simpatico, però con un flow veramente pazzesco ed una capacità di liriche veramente forte. Dalla traccia uno lo avevo notato subito, mi piaceva tanto la sua attitude molto americana. Mi sembra uno dei pochi che hanno capito veramente come si fa il rap, come si fanno le barre e che quello che dici non è mai scontato. In quest’album avevo chiaro in mente che volevo collaborare con lui. Quando l’abbiamo fatto è venuto in studio; siamo stati insieme, abbiamo avuto modo di conoscerci, di interagire insieme e mi sembra uno con le idee molto chiare riguardo a quello che vuole fare, molto spigliato a livello di rap e sicuramente più avanti dell’età che ha.
Qual è stato il brano di Virus più difficile da scrivere?
Mentre in Enemy c’era stato un pezzo che mi aveva fatto faticare parecchio, in questo è venuto tutto abbastanza facilmente e in maniera naturale. Il disco l’ho scritto interamente in studio e non mi sono incagliato su nessun pezzo in particolare.
E il pezzo di Enemy che ti ha messo in difficoltà qual è stato?
Matanza con Rkomi. Aveva una base strana, sincopata. Mi ricordo di essermi fermato a mezza strofa e ci ho messo parecchio tempo a trovare il modo giusto per concluderla.
Ad oggi, qual è il nemico più grande di Noyz Narcos?
Ad oggi, me stesso.
Dopo che è uscito Enemy, hai detto che sarebbe stato il tuo ultimo disco. In quel momento, hai accarezzato l’idea di andartene via dall’Italia?
L’ho sempre valutata. Già a 20 anni, appena ho finito con la scuola, la prima cosa che ho fatto è stata andare ad Amsterdam per qualche anno. In generale, però, ho sempre viaggiato parecchio. Se un domani riuscissi a comprarmi una casa da qualche parte lontano da qua, ci trascorrerei volentieri sei mesi all’anno. Per quanto riguarda il dove, sono innamorato dell’America. Ci sono stato e ha delle città che mi piacciono molto e mi stimolano.
Ti è mai capitato invece di pensare di tornare a vivere a Roma?
Ci penso spesso, ma nell’immediato preferisco stare qui (Milano ndr.). Ho avviato parecchie attività qua, ed è una città molto più piccola di Roma, per cui riuscire a fare tante cose in una giornata è molto più semplice. A Roma, perdi una giornata anche solo per spostarti da un posto all’altro, quindi è tutto molto più complicato. Roma è la città che amo, e ci torno almeno una volta al mese perché è dove stanno i miei affetti più cari. Poi ogni tanto ne ho proprio bisogno. A Roma sento quel calore umano che a Milano non si respira perché sono tutti un po’ più sulle loro, mentre a Roma c’è molta più socialità, c’è sempre una battuta, anche tra sconosciuti al bar. Tuttavia, finché ho voglia di stare con la testa sul lavoro, qui sto meglio.
Nel documentario ad un certo punto ti sentiamo parlare in un vecchio video di lifestyle, degli sfizi. Pensi che i soldi siano sufficienti per fregarsene dei problemi che ci sono nel Paese in cui si vive?
Penso che i soldi risolvano un sacco di problemi ma non tutti.
Foto: Consiglio Manni c/o The Freaks (Circus Studios)
Digital Cover: Simone Mancini/Jadeite Studio
Coordinamento redazionale: Emanuele Camilli
Editing: Ciro Arena/Bojan Zeric
Ufficio stampa Noyz Narcos: Lucrezia Spiezio/Alessandra Gennaro