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“Matrix Resurrections” non va oltre l’operazione nostalgia

Ventidue anni dopo il primo capitolo, Lana Wachowski (questa volta senza l’ausilio di sua sorella Lilly) torna alla regia di Matrix, con l’obiettivo di riportare in sala gli amanti della trilogia originale, ma anche con la speranza (soprattutto della Warner Bros) di aprire la vecchia fanbase alle nuove generazioni. Solo il tempo potrà verificare la buona riuscita di un’operazione commerciale che resta comunque ambiziosa e (visti i tempi) di difficile realizzazione. Ad ogni modo, prescindendo da questo aspetto – tutt’altro che irrilevante in una saga così iconica, che con il primo capitolo ha letto e allo stesso tempo contribuito a plasmare la società del XXI secolo – è tempo di concentrarsi sull’analisi di Matrix Resurrections.

La prima parte del film è contraddistinta da uno spiccato postmodernismo metacinematografico. In altri termini, resasi conto di non riuscire a sviluppare ulteriormente una trilogia narrativamente già chiusa, Lana Wachowski decide di ripartire da dove aveva iniziato, ovvero dalla matrice originaria, il Matrix del 1999, di cui vengono continuamente riproposte le scene chiave e che in Resurrections diventa il videogame creato da un Thomas Anderson imbottito di pillole blu e indeciso su come dar vita al quarto capitolo della saga. Un’operazione in principio divertente, che viene tuttavia reiterata fino all’esasperazione, dimostrando così tutta la vacuità di un prodotto che, evidentemente, non ha più nulla da dire. A ciò si aggiunga anche la scarsa originalità dell’espediente metacinematografico: basti pensare che in Nightmare – Nuovo incubo, datato 1994, il regista Wes Craven arrivò ad interpretare sé stesso alle prese col medesimo film da girare. Insomma, non è con Matrix Resurrections che nasce il postmoderno. Le cose addirittura peggiorano nella seconda parte del film, quando cioè, tra uno spiegone e l’altro, i personaggi (quelli vecchi, quelli nuovi e quelli vecchi mal-interpretati da attori nuovi) sono impegnati in combattimenti tanto mirabolanti quanto scadenti.

Il montaggio iperfrenetico è disastroso; la regia confusa; gli effetti speciali datatissimi (ok la fedeltà alla matrice originaria ma dopo 22 anni e con $190 milioni di budget è imperdonabile fare simili passi indietro). A salvarsi sembra essere solo la colonna sonora, in alcuni momenti davvero affascinante. Poco altro. Cosa resta dunque di Matrix Resurrections? La nostalgia. A rievocarla continuamente non sono soltanto gli insistiti rimandi al primo capitolo di cui si è già detto, ma anche le statuarie presenze di Keanu Reeves e Carrie-Anne Moss, avvolti da un fascino ieratico che circonda la loro resurrezione. Il carisma che infondono ai loro personaggi è indiscusso e viene (purtroppo) esaltato dall’incapacità di Yahya Abdul-Mateen II e Jonathan Groff di vestire rispettivamente i panni di Morpheus e dell’Agente Smith. Il limite del film è tuttavia quello di non riuscire ad andare oltre l’operazione nostalgia. A qualcuno basterà, a qualcun altro no. A parere di chi Vi scrive, se l’unico modo per andare avanti è tornare indietro, allora è meglio stare fermi.