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“West Side Story”: Steven Spielberg va oltre il semplice remake

L’ultima fatica di Steven Spielberg consiste nell’adattamento di West Side Story, un successo di Broadway già trasposto sul grande schermo nel 1961 da Robert Wise e Jerome Robbins, che sbancarono agli Oscar portandosi a casa ben dieci statuette. Difficilmente Spielberg sarà altrettanto fortunato, soprattutto se si considera che, nonostante l’entusiasmo della critica, il film sta incassando molto meno del previsto. I motivi del flop al botteghino sono molteplici: il vertiginoso aumento dei contagi, il genere musical, che sembra interessare poco o nulla agli spettatori contemporanei e la contestuale uscita di Spider-Man: No Way Home sta sbaragliando la concorrenza. Ciò nonostante, quello in esame è senza alcun dubbio uno dei migliori film dell’anno e non darsi la possibilità di vederlo in sala sarebbe un peccato. Che West Side Story presenti tematiche drammaticamente ancora attuali nell’America odierna (purtroppo non così diversa da quella di sessant’anni fa), non è certo un mistero ed è sufficiente rivedere il capolavoro di Wise e Robbins per rendersene conto. Gentrificazione, conflitti razziali, identità di genere, emancipazione femminile e la reale portata dell’American Dream (costantemente sospeso tra concreta opportunità e semplice illusione) sono i temi cardine del musical, che (ora come allora) non può essere considerato come una banale riproposizione a stelle e strisce di Romeo e Giulietta.

Ciò nonostante, Spielberg riesce nell’impresa di andare oltre il semplice remake, realizzando un adattamento del tutto personale, con un preciso messaggio politico rivolto alla contemporaneità. Infatti, pur restando fedele all’impianto del film del 1961 (le vicende non subiscono stravolgimenti e le meravigliose musiche originali di Leonard Bernstein vengono adattate da David Newman con ossequiosa aderenza), il regista di Cincinnati opta per cambiamenti numericamente esigui, ma sostanzialmente profondi, che conferiscono all’opera inediti significati. La macchina da presa è più mobile, le inquadrature sono spesso oblique, la brillantezza dei colori viene desaturata, il buio e i luoghi chiusi abbondano, ma, soprattutto, l’Upper West Side di Manhattan è un groviglio di macerie e calcinacci, evidente metafora di ciò che resta dell’America al termine dei quattro anni di presidenza Trump. Se nel 1961 portoricani e seconde generazioni di immigrati caucasici combattevano per il controllo di un quartiere (seppur periferico), adesso non è rimasto neanche quello. Al vincitore di questa guerra tra poveri (chiunque esso sia) non spetteranno altro che polvere e rovine, oltre a un ordine di sgombero immediato per far posto alla nuova borghesia del Lincoln Center. Un pessimismo amarissimo, quasi inedito nella poetica di Spielberg, che giunto alla soglia dei 75 anni sembra voler riflettere sulle promesse non mantenute dagli Stati Uniti, capaci di trasformare il sogno americano in un incubo senza fine.

Viste le tematiche trattate, il rischio di scadere nella retorica del politicamente corretto era alto. Eppure, la fedeltà al testo originale (già modernissimo per il tempo) consente di evitare forzature e luoghi comuni, lasciando che la denuncia avvenga sul piano strettamente cinematografico. La solidarietà femminile nella scena del tentato stupro, il personaggio di Valentina al posto di Doc (doveroso tributo alla straordinaria Rita Moreno, le cui origini portoricane hanno probabilmente ostacolato la sua ascesa a Hollywood) e l’interpretazione maschile di Scarafaggio sono tutti accorgimenti necessari in questo secolo, che non scalfiscono (anzi, incrementano notevolmente) il valore dell’opera e il messaggio di fondo. Un’ultima menzione va infine riservata al meraviglioso debutto di Rachel Zegler, attrice appena ventenne perfettamente calata nei panni di Maria. Voce impeccabile, carisma e talento da vendere. Il suo futuro (Disney permettendo) è radioso. Meno brillante invece il resto del cast: bene Ariana DeBose, dimenticabile Ansel Elgort, uno dei pochi punti deboli del film. West Side Story è un film imperdibile, che grazie alla sapiente mano di Spielberg, sessant’anni dopo il successo di Wise e Robbins risulta ancora capace di intrattenere, emozionare e far riflettere sui grandi problemi della contemporaneità.