In principio era Bottle Rocket – Un colpo da dilettanti, e lo era nel vero senso del termine: il primo film di Wes Anderson doveva ancora trovare un proprio stile ma soprattutto il suo posto nel magico mondo della regia. Eppure qualcuno era lungimirante e vide nel giovane regista texano del potenziale, tanto che agli MTV Movie Awards del 1996 ricevette il premio come miglior nuovo film-maker. Venne poi Rushmore, che inaugura il decennale sodalizio con Bill Murray. Vicissitudini assurde e surreali si susseguono e pian piano il Wes Anderson regista comincia a prendere forma attorno all’uomo. E nel 2001 arrivarono I Tenenbaum, la famiglia più disfunzionale che potrete mai conoscere, e portarono con sé un regalo fantastico: il cinema di Wes Anderson nella sua massima espressione stilistica. I colori neutri dei primi due film sono lasciati nell’armadio del vecchio appartamento, e in quello nuovo si fa sfoggio soltanto di delicatissime tonalità pastello a cui fa seguito il grottesco straniamento dal mondo dei membri della famiglia, presi a rimettere insieme i pezzi del loro rapporto. Con Le avventure acquatiche di Steve Zissou Wes Anderson ci svela un particolare fetish: ama rappresentare dei padri fuori dal comune, quei bad dads a cui fa riferimento il libro omonimo della collana Wes Anderson Collection del New York Times. E quindi eccolo quel padre cattivo, interpretato da un Bill Murray alle prese con avventure surreali che si legano perfettamente ai film successivi, Il treno per il Darjeeling – dove fece la sua comparsa la bad mom Anjelica Huston – e lo stop-motion Fantastic Mr. Fox in cui le vicende esistenziali tipiche degli esseri umani affliggevano il mondo animale in una sorta di satira sociopolitca.
Ma non si creda che questa storia all’apparenza infantile sia “per bambini”, e non si cadda nello stesso errore con Moonrise Kingdom, in cui i nostri bad parents sfilano impedendo inutilmente l’amore tra due ragazzini. E poi d’improvviso il mondo di Anderson si tinse di rosa con Grand Budapest Hotel, un susseguirsi di situazioni surreali e paradossali che forse risultano più un esercizio di stile che un film coerente a se stesso; e probabilmente conscio di ciò il regista radunò un cast incredibile per il film successivo, un nuovo stop-motion con gli animali, L’isola dei cani, in cui per la prima volta venne messa in scena una distopia in cui i protagonisti sono dei cani diventati illegali e a rischio estinzione. E venne infine il giorno di The French Dispatch, che motiva questa mia lunghissima introduzione. Se amate come me Wes Anderson – al punto che gli ho dedicato la mia tesina di maturità classica, quindi sì: è vero amore – non potrete non notare che in questo film c’è qualcosa di tutti i titoli che ho citato. Se il regista dovesse fermarsi domani (e sappiamo che non lo farà, perché Bill Murray ha per errore spoilerato il titolo del prossimo film, Asteroid City, attualmente in lavorazione in Spagna) avremmo come ultima opera la summa di tutto il suo percorso artistico. L’artificio narrativo di The French Dispatch è geniale: tutto parte dalla morte del fondatore di questo fittizio giornale, interpretato da Bill Murray, che lascia nelle ultime volontà la decisione di smetterne la pubblicazione. Morto il fondatore, quindi, muore anche il giornale. E il film mette in scena letteralmente l’ultimo numero, dividendosi in episodi che altro non sono che gli articoli pubblicati al suo interno, ognuno raccontato dal punto di vista del giornalista che l’ha scritto e quindi con uno stile filmico differente pur avendo la stessa identità.
Per noi addetti ai lavori guardare questo film vuol dire rispecchiarsi nelle dinamiche di una redazione, nelle sue gioie e nei suoi dolori, ma soprattutto nella passione che muove la penna. The French Dispatch è un film all’interno del quale si nasconde una dichiarazione d’amore: per la scrittura, ovviamente, che in questo caso trasforma il taglio giornalistico in una brillante sceneggiatura che si popola di una vastità infinita di personaggi tutti diversi e caratteristici; ma anche e soprattutto per il cinema, poiché Wes Anderson mette in scena diversi artifici, soluzioni e sperimentazioni registiche che rendono questo film con ogni probabilità il migliore che abbia mai realizzato. Siamo di fronte a un regista dalla carriera invidiabile, che ha costruito un’immagine di sé e un’idea personale del cinema coerente lungo un percorso iniziato ormai venticinque anni fa. Il Wes Anderson di The French Dispatch è un uomo e un regista consapevole di sé, del mezzo che utilizza per plasmare il suo personale mondo e dell’evoluzione del cinema. Una dichiarazione d’amore, come ho detto, in stile C’era una volta a… Hollywood di Quentin Tarantino: un film fatto sì per gli spettatori, ma soprattutto per sé poiché c’è al suo interno l’anima, il cuore e la storia del regista. Se dovessimo descrivere Wes Anderson soltanto con il titolo di un suo film, la scelta ricadrebbe senza dubbio su The French Dispatch. Si esce dalla sala meravigliati, come bambini al termine di un giro in giostra, e ti viene voglia di farlo ancora e ancora. Sì, fallo ancora, Wes.