Quattro anni dopo First Reformed (2017), Paul Schrader torna alla regia di un lungometraggio con Il collezionista di carte (fuorviante traduzione del titolo originale The Card Counter), presentato in concorso alla 78esima Mostra del Cinema di Venezia. Coerentemente con il suo cinema, Schrader mette in scena il dramma di un giocatore d’azzardo metodico, enigmatico e tormentato dal senso di colpa, il quale, come un antieroe della New Hollywood, erra solitario nella notte in cerca di redenzione. Il fardello del protagonista è questa volta quello di un’intera nazione, colpevole di essere riuscita ad imporsi nel mondo solo mediante il ripetuto ricorso alla violenza (come testimoniano le barbare memorie dal carcere di Abu Ghraib). È quindi in quest’ottica che va letta la macchiettistica figura del pokerista a stelle e strisce, evidente parodia dell’America trumpiana che sbanca i tavoli mano dopo mano, urlando a gran voce U.S.A. dopo aver eliminato i suoi avversari. Già da queste poche righe, appare evidente come il gioco d’azzardo (e quello del poker in particolare), non sia l’oggetto del film, bensì l’acuta metafora della vita del protagonista, scandita con regolarità prima dai ritmi della prigione, poi dalle mani di poker, che si ripetono sempre uguali fino a quando, nel finale, succede qualcosa di inaspettato e ampiamente atteso.
Da una parte l’espiazione, pagata con il sangue, frutto di una violenza collocata sempre fuori campo; dall’altra la redenzione, la quale, come in Diario di un ladro (film di Bresson che Schrader insistentemente ripropone nei suoi finali) viene personificata dall’unica figura femminile del film, con funzione eminentemente salvifica, in grado di lasciare un ottimistico (e beffardo) spazio al perdono e alla grazia. In totale armonia con la semantica della pellicola, la regia risulta pulitissima, presentando movimenti di camera lineari e geometrici, che incrementano l’asetticità e il minimalismo degli interni, cedendo il passo a una caleidoscopica fish-eye camera solo nelle traumatiche analessi di Abu Ghraib. Notevoli sono anche il montaggio, la colonna sonora e una fotografia al neon abile ad illuminare con la giusta cupezza e intensità un film girato quasi esclusivamente in notturna. Infine, un’ultima menzione va riservata ad Oscar Isaac, che regala una delle sue migliori performance, recitando rigorosamente per sottrazione e conferendo al suo personaggio un tormentato fascino non dissimile da quello del Travis Bickle di Taxi Driver (che ricordiamo essere stato scritto dallo stesso Paul Schrader). In definitiva, Il collezionista di carte risulta un’opera d’altri tempi, visivamente elegante e raffinata, che nonostante l’ispirazione bressoniana e gli stilemi tipici della New Hollywood, riesce a rendersi attuale, assumendo al contempo una precisa valenza socio-politica.