dark mode light mode Search Menu
Search

Perché “Fear Street” è uno “Stranger Things” che non ce l’ha fatta

Lo ammetto: sono una fan del citazionismo cinematografico. Amo guardare un film e puntare il dito verso lo schermo non appena scovo un omaggio alla tradizione. Allo stesso modo sono un’amante dei film horror, che di citazioni sono pieni. Però un conto è farle bene ed essere originali (penso a Quella casa nel bosco), un altro è tenere in piedi un’intera trilogia soltanto grazie a riferimenti antecedenti vari, come nel caso di Fear Street. È vero, quella a Scream che troviamo nel primo capitolo (1994), in cui una Maya Hawke rimane ben salda all’universo Stranger Thingsiano pur tributando Drew Barrymore, è apprezzabile e ben fatta. Ma poi finisce lì, o meglio: sfinisce. Ed è un peccato, perché personalmente aspettavo con entusiasmo questa trilogia tratta dai romanzi di R.L. Stine, autore che nella mia preadolescenza dark wannabe ho letto e riletto. Fear Street è una trilogia firmata Netflix che si compone di tre capitoli omonimi che procedono a ritroso: dal 1994 si passa al 1978 per finire al 1666, anno in cui ha avuto origine la maledizione che incombe sulla cittadina di Shadyside e a cui due fratelli dovranno porre fine. Un compito infausto, ma mai quanto quello dello spettatore che si trova a guardare (o meglio, sentire) quel che la pellicola ha da offrire.

Ciò che salta immediatamente all’occhio, dopo lo sballo da luci al neon di cui si fa largo uso nel primo capitolo, è il fatto che tutti i film sono quasi completamente girati al buio; un’oscurità così persistente che anziché far salire l’ansia in previsione dei jumpscare mette solo voglia di scegliere un altro film, perché rende davvero difficile proseguire nella visione. Ma probabilmente la maledizione di Shadyside ha afflitto anche me, perché mi sono immolata fino alla fine. Ovviamente da Fear Street non si può pretendere troppo: è un prodotto per ragazzi e come tale è stato confezionato, e soprattutto come tale va contestualizzato. Tuttavia, mentre si passava da un bodycount a un’ennesima citazione, mi è venuto spontaneo fare un confronto tra i capolavori della tradizione horror, a loro volta realizzati per i teenager degli anni Ottanta, e questa trilogia, che pecca di pigrizia nell’offrire una storia dinamica e avvincente a un pubblico di giovani spettatori che tutto risultano meno che invogliati ad approfondire la tradizione orrorifica in celluloide. Questo preciso punto a sfavore di Fear Street sta nel fatto che non offre nulla di memorabile, neanche quei serial killer che sono la base di un film horror. Sullo schermo infatti ci vengono presentati fin troppi villain a malapena accennati, senza darci l’opportunità di affezionarci a chi davvero porta avanti la macchina dell’orrore, preferendo concentrarsi sulle romance.

Da adolescente che guarda un prodotto simile, onestamente, mi sentirei presa in giro, perché sembra quasi dare per scontato che i teenager vogliano vedere sì qualche sbudellamento, ma soprattutto lingue e mani che si intrecciano, ed è proprio questo atteggiamento a impedire che si possa venire a creare una nuova memorabile era del cinema horror. A risollevare un po’ le sorti ci pensa Fear Street: 1666, il capitolo finale, che dà ai giovani spettatori una soddisfacente spiegazione sulle origini di una maledizione che altro non è che pregiudizio nei confronti di chi viene considerato diverso (e gli si perdona perciò l’essere una citazione lunga due ore a The Witch). Viene perciò da chiedersi se e quanto fosse necessario impiegare sforzi ed energie in tre prodotti di cui due mediocri, quando uno, se ben realizzato, era più che sufficiente. Ma si sa: pecunia non olet.