In Italia, specialmente al sud, per spiegare l’origine delle mafie, il folklore (e pure Roberto Saviano) si avvale di una leggenda: quella dei tre fratelli Osso, Mastrosso e Carcagnosso, avente origine in Spagna nel XV secolo. I tre uccisero un protetto del re che violentò la sorella: un vero e proprio delitto d’onore che portò al loro arresto e alla prigionia sull’isola di Favignana. Trent’anni dopo, i tre fratelli, ormai liberi, si recarono rispettivamente in Sicilia, Calabria e Campania, dove fondarono quelle che sono le primordiali strutture di mafia, ‘ndrangheta e camorra. L’elemento malavitoso è alla base di A Classic Horror Story, il film di Roberto De Feo (The Nest) e Paolo Strippoli prodotto da Netflix e uscito sulla piattaforma il 14 luglio; la leggenda è tuttavia condita da spruzzate di paranormale che ben si adagiano sulla struttura del film. I tre fratelli, privati ognuno di una facoltà fondamentale (vista, udito e parola – vi ricordano per caso un detto noto?), si offrono di porre fine alla fame di un paese in cambio di sacrifici umani. Un prezzo alto e terribile, a cui nonostante ciò gli abitanti non possono fare a meno per sopravvivere, e che li costringe a diventare seguaci dei tre sanguinari consanguinei. Proprio come gli infami meccanismi della criminalità organizzata. A Classic Horror Story, nomen omen, è un horror tutto italiano che utilizza tantissimi topoi e ispirazioni dell’universo cinematografico di riferimento e li assembla creando una storia efficace e credibile dove l’orrore, vissuto in prima persona da un’incredibile Matilda Lutz (che si è guadagnata un posto d’onore nel cinema di genere grazie a Revenge), mette radici nella torrida storia e nelle torbide tradizioni italiane per poi arrivare dove nessuno, neppure lo spettatore, avrebbe immaginato.
L’obiettivo alla base del film, oltre ad omaggiare il genere, è quello di creare un orrore reale, una paura palpabile che indossa una maschera rassicurante, che cammina a fianco a noi e della cui presenza ci accorgiamo soltanto quando è troppo tardi. Il film di De Feo e Strippoli scava un profondo buco nero nelle asperità italiane fino a giungere laddove una persona normale non si spingerebbe mai, dove la paura e la sofferenza altrui sono servite su un sontuoso vassoio d’argento da cui un insaziabile, vorace e bulimico spettatore trangugia l’avvelenato cibo che gli viene offerto, consapevole che tutti guardano, tutti sentono e tutti sanno, ma nessuno vede, nessuno ascolta e nessuno parla. Il carnefice è protetto e diventa “l’elefante nella stanza”, quel problema di cui tutti sono a conoscenza ma che nessuno denuncia. Insomma, A Classic Horror Story non solo rende onore alla grande tradizione cinematografica italiana e al Cinema Horror con la C e la H maiuscole, ma è anche una denuncia che lega con un filo rosso sangue le brutture che si annidano nel nostro Paese. Ombre che, come batteri virulenti che si propagano velocemente, tingono di un nero pece quell’amato tricolore che in questi giorni abbiamo sventolato con orgoglio. È come se attraverso la parte più marcia del nostro Paese non si potesse guardare, si può tuttavia cadere giù, sempre più giù, fino ad essere inghiottiti da un abisso dal quale non si può più uscire.