«In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio», così comincia un folgorante bestseller di quell’anno: un giallo storico medievale ambientato in un monastero benedettino. Denso di religione, arte, storia ma soprattutto filosofia viene pubblicato da un professore di semiologia dell’Università di Bologna. Quel libro – molto voluminoso – è Il nome della Rosa di Umberto Eco e si trova ancora oggi sugli scaffali di quasi 60 milioni di famiglie in tutto il mondo, anche se solo a prender polvere. Nel maggio di quell’anno la rivista statunitense Chicago Magazine definisce per la prima volta tutti quei giovani cittadini ben vestiti e con l’ossessione di far carriera come yuppie, ma se la lettura, anche solo di una rivista, non fa proprio per voi il 1980 è anche l’anno che vede la commercializzazione di due giochi che di lì a breve sarebbero diventati leggenda. Il primo, per i più intellettualoidi, è un giocattolino a forma di cubo inventato dall’ungherese Erno Rubick, il Cubo di Rubik per l’appunto. 6 facce, 9 quadratini colorati per ognuna per un totale di 43.252.003.274.489.856.000 possibili combinazioni, una sola delle quali giusta e per completarlo possono volerci 4,59 secondi o non bastare una vita intera. Per i fan dell’arcade, i giapponesi della Namco pensano un gioco che vede al centro una creaturina sferica di colore giallo impegnata a nutrirsi di numerosi puntini disseminati ordinatamente all’interno di un labirinto tenendosi rigorosamente alla larga da quattro fantasmi, è l’arcinoto Pac-Man. Per gli amanti della musica è l’anno di uscita del capolavoro dei Pink Floyd The Wall, della prematura morte del batterista degli Zeppelin John Bonham e del loro scioglimento, per gli sportivi dell’epica battaglia sul prato inglese più famoso del mondo tra lo yin e lo yang del tennis, Borg e McEnroe, oppure la favola del piccolo Nottingham Forest capace di bissare la Coppa dei Campioni dell’anno precedente guidata in panchina dal mago Bryan Clough e dalla saracinesca Shilton tra i pali. I più fortunati di tutti quell’anno saranno però gli appassionati cinematografici che avranno la possibilità, nell’arco di 12 mesi, di scatenarsi con la celeberrima commedia musicale The Blues Brothers, assistere al più epico capitolo della lotta tra Jedi e Impero Galattico con l’Impero colpisce ancora, tirare i pugni come De Niro nel più bel film sportivo di sempre, Toro Scatenato, ed infine trattenere il fiato tra neve, sangue ed asce con il thriller a tinte horror Shining.
Toro Scatenato – Martin Scorsese
È il 19 luglio quando a Mosca nel Grande Stadio Lenin si apre il sipario sulla XXII edizione dei Giochi Olimpici. Le Olimpiadi per noi delle imprese dorate di Pietro Mennea nei 200 metri, conquistati dopo una rimonta leggendaria, e di Sara Simeoni regina del salto in alto. Sono però anche i Giochi del boicottaggio degli States e di altre nazioni del blocco occidentale per la sconsiderata invasione dell’Afghanistan operata dal “nemico” sovietico negli ultimi giorni del 1979. Lo sport corre veloce non solo al di là della cortina di ferro (con l’URSS che otterrà lo stratosferico record di 195 medaglie in una singola edizione) ma anche sul grande schermo poiché Martin Scorsese decide di dare vita alla pellicola Toro Scatenato, «il più bel film degli anni Ottanta» per il grande critico cinematografico Patrick Ebert, il più grande film a tinte sportive di sempre, aggiungiamo noi. Toro Scatenato è il ritratto a due colori del Toro del Bronx, il pugile italoamericano Jake La Motta interpretato da un monumentale Robert De Niro pompato di quasi 30 kili per l’occasione. Scorsese rifugge le spettacolari riprese di estenuanti allenamenti marchio di fabbrica del cugino pugilistico già due volte nelle sale (1976 e 1979) Rocky Balboa lasciando invece soffermare la sua cinepresa sull’animo del protagonista, le sue imprese e le sue cadute. La pellicola è un lungo flashback in cui lo sport e il ring rappresentano lo sfondo adatto per far esplodere il contesto di violenza in cui il personaggio di Jake è calato: la sua arroganza con le donne, gli scontri con il fratello, i rapporti con la mafia. Finita la sua prima carriera sul ring Jake ne comincerà una seconda, che lo vedrà vagare tra squallidi locali e subire perfino l’onta della prigione. Il finale è un colpo di genio di Scorsese, un nuovo duello allo specchio (sul modello di Taxi Driver) mentre un Jake/Robert trasfigurato, irriconoscibile, ripete, nel suo camerino, il monologo che reciterà di lì a breve quella sera sul palco dello sgangherato locale dove si esibirà, un eloquente simbolo della sua sconfitta esistenziale.
L’impero colpisce ancora – Irvin Kershner
Oltre la cortina non è però tempo solo di Giochi, sempre più popoli da troppo tempo ingabbiati sotto il soffocante giogo sovietico sentono che è giunto il momento di rivendicare con orgoglio, a qualsiasi costo, i propri diritti. Uno di questi popoli è la Polonia dove, a settembre, un elettricista impiegato nei cantieri navali di Danzica con lunghi baffi neri mette in piedi un’organizzazione sotterranea che presto si imporrà – attraverso scioperi, contestazioni e altre forme di dissenso politico e sociale, attuate sempre nel rispetto della scelta – non violenta – come movimento di massa e fondamentale luogo di incontro delle opposizioni cattoliche ed anticomuniste nei confronti del governo centrale. Il nome di quell’uomo era Lech Walesa e la sua organizzazione sindacale, Solidarnosc (letteralmente “solidarietà”), diventerà leggenda. Mentre Walesa lotta contro l’opprimente regime sovietico nelle sale cinematografiche anche un giovane Jedi, Luke Skywalker, è chiamato a combattere una feroce dittatura, quella dell’Impero Galattico guidato da Palpatine e difeso da Darth Fener oltre che da immense schiere di Stormtrooper. Esce nelle sale L’impero colpisce ancora, il più epico capitolo della lunga saga di Guerre Stellari. È il film in cui Darth Fener si consacra come il miglior villain della storia del cinema, vediamo per la prima volta Yoda, probabilmente il personaggio più amato di tutta la saga, e non mancano le mitiche battaglie tra navi spaziali. È inoltre il capitolo che custodisce la più iconica scena di tutta la galassia di Guerre Stellari, l’indimenticabile momento, tra sferzanti colpi di spade laser, del «Io sono tuo padre».
The Blues Brothers – John Landis
Riposte nel fodero le spade laser è tempo, il 4 novembre, per la più grande democrazia del mondo di decidere se confermare alla propria guida il democratico Jimmy Carter oppure virare sull’ex-attore, già governatore della California, il repubblicano Ronald Reagan. La scelta cade su quest’ultimo, che sconfigge Carter nettamente. Oratore abile e persuasivo, “Presidente della gente“, rilancia la sfida tecnologica e militare all’URSS e diventa il più convinto sostenitore – insieme alla collega britannica Margareth Tatcher – di quelle politiche neoliberiste che avrebbero dominato il decennio e non solo. Solamente due pazzi veri, tanto nella vita privata quanto sul palcoscenico, come John Belushi e Dan Akroyd avrebbero forse potuto prevedere che il protagonista di una serie di pellicole di serie b tra gli anni Trenta e Cinquanta si sarebbe insediato alla Casa Bianca. The Blues Brothers, il film che li vede recitare assieme sotto la regia di John Landis (Animal House, Una poltrona per due), è il simbolo di un’America spensierata, pronta a dare una definitiva spallata all’arcirivale Sovietico nell’ormai più che trentennale competizione conosciuta con il nome di Guerra Fredda. Il via alle danze della pellicola, a bordo della Bluesmobile (una Dodge Monaco 440), è dato dall’iconica frase «sono 126 miglia per Chicago, abbiamo il serbatoio pieno, mezzo pacchetto di sigarette, è buio, e portiamo tutti e due gli occhiali da sole». Così parte la missione (per conto di Dio) dei fratelli Jake ed Elwood Blues. Rimettere in piedi la vecchia band e raccogliere i soldi necessari per salvare dalla bancarotta l’orfanotrofio in cui sono cresciuti. I due scalmanati e sgangherati protagonisti accompagnati da leggende del jazz, blues e soul del calibro di Aretha Franklin, Ray Charles, James Brown e Cab Calloway spingono lo spettatore – cantando e ballando in maniera scomposta sulle note di Everybody Needs Somebody to Love, Jailhouse Rock, Gimme Some Lovin’ ed altri inossidabili successi – ad accompagnarli nella loro impresa stando alla larga dai “piedipiatti” e dagli stolti nazisti dell’Illinois. Una macchina può saltare senza subire danni da un ponte, centinaia di auto della polizia possono scontrarsi tra di loro in un unico gigantesco incidente, gli occhiali Ray-Ban Wayfarer sono più che un semplice accessorio, dannata folle nostalgia.
Shining – Stanley Kubrick
La follia quell’8 dicembre veste però anche i panni di Mark David Chapman un trasformista della vita, bravo ragazzo cicciotello, vagabondo tossicodipendente ed infine fanatico cristiano e ossessionato lettore del romanzo di Salinger Il giovane Holden. Un tempo adorava i Beatles ora le voci che sente nella sua testa gli ripetono senza tregua che John Lennon (che si credeva più famoso di Gesù) aveva tradito gli ideali di una generazione e che per questo andava punito. Mark non tentenna ed alle 22.52 esegue l’ordine, “Ehi Mr. Lennon” grida, poi pianta quattro dei cinque proiettili sparati nella schiena della celebrità mondiale che solo poche ore prima era stato immortalato autografare una copia del suo ultimo album, Double Fantasy, a quello che sembrava solo un altro dei suoi moltissimi fan. A John, freddato di fronte allo sfarzoso Dakota Building dove dimorava, nell’Upper West Side di Manhattan, rimane solo il tempo di sussurrare “I was shot…”. Nessuno avrebbe potuto prevedere una tale escalation di violenza da parte di “pussy” Chapman (così lo chiamavano i suoi compagni) così come altrettanto probabilmente Jack Torrance (Jack Nicholson), protagonista del favoloso thriller-horror Shining griffato Stanley Kubrick, non poteva prevedere, durante l’idilliaco viaggio verso l’Overlook Hotel tra vallate mozzafiato e boschi incontaminati a bordo di un maggiolino giallo, che le mura di quell’albergo sarebbero presto state il teatro dei suoi agguati armati alla povera moglie Wendy (Shelley Duvall) e al figlioletto Danny (Danny Lloyd). Guardiano invernale di una tenuta troppo estesa per un fragile uomo, la sanità mentale dell’ex alcolista, ora aspirante scrittore, viene progressivamente meno. «Per molte persone l’isolamento e la solitudine, a volte, possono rappresentare un problema» lo avverte il proprietario della struttura, «Non per me» risponde laconico Jack. Iconiche stralunate espressioni facciali e frasi come “troppo lavoro e niente gioco rendono Jack un cattivo ragazzo” scandiscono la discesa negli inferi della sua debole psiche. Discesa che finirà vedendolo gridare alla moglie, con un ascia in mano, “Wendy sono a casa!” o inseguire spiritato il piccolo Danny – colpevole di possedere il dono della luccicanza – in un labirinto di siepi innevato. Nonostante la tagline del film recitasse “l’ondata di terrore che ha travolto l’America” siamo di fronte ad un thriller dallo stile sopraffino piuttosto che davanti ad un horror raccapricciante. Il padre putativo dell’opera, Stephen King, autore del romanzo da cui esso è tratto, non l’ha mai apprezzato, definendolo in più occasioni «freddo e distaccato», a differenza invece di milioni di appassionati che esaltano ancora la conturbante, geometrica e misteriosa regia di Kubrick.
Illustrazioni di Francesco Moffa