Il mio Spotify, tra gli artisti più ascoltati, mi elenca i Cure e Joy Division. Questo fatto parrebbe non avere un nesso con ciò che stiamo trattando, ma ce l’ha. Infatti è evidente che abbia una certa propensione ai sound dark. Per questo, e per mille altri motivi che non starò ad elencare, sono sempre più convinto che When We All Fall Asleep, Where Do We Go?, ossia l’album d’esordio di Billie Eilish, sia il più grande disco degli ultimi dieci anni, forse dell’intero post Duemila. Una delle poche volte in cui sono stato profondamente d’accordo con le premiazioni ai Grammy. Un concept album pieno di sorprese, dove c’è sempre qualcosa che non ti aspetti dietro un drop o un bridge. Una distorsione vocale, un momento ambient, un cortocircuito sensoriale oppure un metateatro musicale. Ricordo una frase che mi colpì molto all’Università: le basse aspettative sono una buona strategia. Non ricordo chi la disse ma è evidente che non sia applicabile alla diciannovenne californiana. E purtroppo quelle aspettative sono state disattese. Ad eccezione di Everything I Wanted, che seppur in modo diverso (più light), ripercorre il viaggio sonoro di When We All Fall Asleep, Where Do We Go?, tutti i brani successivi rappresentano una virata profonda. Ciò non significa affatto che i brani siano di basso livello, tutt’altro. Io stesso, su queste frequenze, avevo parlato sempre in modo elogiativo della nuova Billie. Oggi però, alla luce di Lost Cause, è impossibile non fare una analisi distaccata di questa evoluzione che somiglia più ad una involuzione. Non tanto musicalmente, visto che il brano è di ottima caratura: un basso e voce degno del miglior Sting. È più un discorso di estetica, sia sonora che visiva (il videoclip, anch’esso molto bello, e diretto dalla stessa artista, sembra più un prodotto delle Destiny’s Child che della vecchia Billie Eilish).
Insomma, tutto bello, ma in modo diverso. Non basta quell’approccio sovversivo coi ritornelli sofisticati in ASMR, non basta il sound di Finneas e non basta nemmeno l’impegno sociale della nuova Eilish. Vorremmo indietro i capelli verde fluo, i video disturbanti con i ragni, le siringhe e le lacrime nere. Vorremmo indietro un sound dark, gotico e oscuro. Una Billie meno bella ma più figa e un immaginario più alla Tim Burton e meno alla Wes Anderson. Se non altro perché a quel game ci giocano in molti, mentre a fare Billie Eilish, c’è solo Billie Eilish. È chiaro che cambiare, specie in adolescenza, è normale, soprattutto se sei un’artista che si è ritrovata in pochi mesi dal lavorare in cameretta al firmare la soundtrack di 007. L’impressione, tuttavia, è che una virata del genere possa far pensare ai fan che quella di prima, o più verosimilmente quella di oggi, sia una personalità scritta a tavolino per aprirsi ad un pubblico più vasto. Sogno un mondo in cui chi fa le cose in modo unico continui per la sua strada senza farsi cambiare da altre dinamiche. Sognavo una Billie come Dylan e i Cigarette After Sex, ma magari è solo una mia visione distorta delle cose. “Nothing’s gonna change my World” , cantavano i Beatles in Across the Universe, spero che il pop a sei zeri non cambi mai il mondo dell’artista più talentosa d’America e che, al massimo, sia lei stessa a sabotare il suo stesso oscuro universo. In quel caso, solo in quel caso, questa svolta avrebbe senso. Post scriptum: Se il tuo Spotify ti segnala Dua Lipa, Rihanna e Beyoncé, considera queste parole soltanto come una lettera aperta di un ascoltatore deluso, anche se ho la sensazione che là fuori ci sia una comunità grandissima che da qualche tempo ha perso il suo Nord, o se preferite, la sua bussola verde fluorescente.