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Perché “Un altro giro” non è il solito monologo moralista sull’alcol

Tra le molteplici cose che mi appassionano ci sono le credenze popolari e i proverbi locali. Spesso e volentieri, da essi si possono estrapolare le fondamenta culturali e l’anima più intima di un territorio. Cosa può descrivere una realtà territoriale più di un detto che è sopravvissuto nel corso degli anni, forse dei secoli? Dalle mie parti si dice che un bicchiere di vino rosso per pasto sia un toccasana e che faccia buon sangue. L’origine di questa credenza va sicuramente ricercata nel colore del vino, molto simile a quello del sangue. Ma ci dice dell’altro: alla base di tutto c’è la gioia nel godere della vita e la ricerca continua di un piacere dionisiaco, nel senso lato del termine. Il nesso tra alcol e sangue si ripresenta in Un altro giro, l’ultimo film di Thomas Vinterberg, vincitore del Premio Oscar come Miglior film Internazionale. A dare il via alla vicenda è la teoria dello psichiatra norvegese Finn Skårderud, secondo la quale il corpo umano nasce con un deficit alcolico pari allo 0,05%. Questo costante deficit renderebbe le persone meno efficienti nelle relazioni sociali. L’assunzione giornaliera di piccole quantità di alcol, prima del lavoro, per colmare il deficit e migliorare il proprio rendimento lavorativo e personale è la sfida che si pongono Martin e i suoi tre colleghi e amici.

Martin è un insegnante di storia inappagato dal proprio lavoro: le sue lezioni sono noiose e gli studenti poco partecipi. Personaggio reso molto interessante negli spettatori più empatici dall’eccelsa prova attoriale di Mads Mikkelsen; l’attore danese ha infatti confermato la sua abilità nel sapere cogliere l’anima dei personaggi del cinema di Thomas Vinterberg, come aveva già fatto ne Il sospetto del 2012. È un professore che ha perso ormai da anni la passione e la gioia del vivere, così come i suoi amici. L’alcol per loro è un trampolino di lancio, uno stimolo per sfuggire al disagio di una generazione che ha perso il gusto del vivere. Sicuramente Un altro giro non ha lo scopo di sensibilizzare il pubblico sul tema dell’alcolismo. Nonostante i toni siano molto più leggeri rispetto a Il sospetto precedentemente citato, il film si discosta e va controcorrente rispetto alla visione comune che si ha su quest’argomento. Lo si può notare, in prima battuta, dalle scene iniziali del film. La citazione ad Aut-Aut, l’opera di Kierkegaard; gli studenti che corrono intorno al lago di Gentofte a suon di birra e musica. Da questi raggi di spensieratezza e inni alla gioia epicurea si passa a una visione più adulta e realistica, che si risolve in una celebrazione liberatoria le cui radici vanno rintracciate nell’ammucchiata di Idioti (Lars von Trier) del 1998.

Il personaggio interpretato da Mikkelsen in questo film viaggia su dei binari più realistici rispetto a quello de Il sospetto, il quale, per motivi di circostanza, si distingueva per una bontà d’animo fuori dal normale. In questo caso, Martin è semplicemente mediocre. La componente dolceamara del film consiste proprio nella mediocrità di Martin e nella unidirezionalità del suo successo: egli, per poter raggiungere la vivacità desiderata, dovrà passare inevitabilmente per l’alcol. A questo punto, la dipendenza dall’alcol assume i toni di un rimedio terapeutico. Se fosse stato un film hollywoodiano, la morale comune avrebbe suggerito di dissuadere lo spettatore all’alcolismo in ogni caso, senza sé e senza ma. La genialità della sceneggiatura di Vinterberg sta nel mostrare gli effetti positivi, per lo meno di Martin, di tale dipendenza. Egli tratta l’argomento non come qualcosa da condannare o da osannare a spada tratta: l’alcolismo è qualcosa che esiste e che, in una certa misura, fa parte di Martin e dei suoi amici. Loro non sono una realtà generale. Un altro giro narra una storia particolare, distaccandosi dall’universale, che può toccare le giuste corde ed emozionare per il suo realismo. È anche così che si fa il grande, anzi, grandissimo cinema.