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Rachele Bastreghi non è mai stata così libera, neanche nei Baustelle

Dopo una militanza ventennale come co-autrice, musicista, voce, seconda voce e corista dei Baustelle, Rachele Bastreghi esce con il suo primo album da solista che già nel nome, Psycodonna, racchiude l’essenza del suo lavoro discografico mettendo al centro il concetto universale di donna che coincide con il suo intimo e personale viaggio sull’accettazione di essere e appartenere all’universo femminile, ricco di differenti sfaccettature che non necessariamente devono essere in lotta, ma possono convivere attraverso una consapevolezza raggiunta. Giacca giallo canarino, occhialetti tondi con lenti verdi e l’immancabile cappello: così Rachele mi accoglie su Zoom. Colori chiari che rimandano a una rinascita descritta, dettagliatamente in questo concept album, sia in parole che in musica. La lotta interiore, la ricerca spudorata di pace ed equilibrio, l’accettarsi e l’avere il coraggio di essere sé stessi sono temi che si collegato facilmente al periodo in cui viviamo. In realtà l’album è in lavorazione da circa due anni e mezzo e Rachele ci tiene a precisare che «il prodotto c’era già prima di questo periodo di isolamento forzato. Due anni fa la mia è stata una scelta di clausura, la definirei creativa; praticamente quando è iniziato il casino il disco era già pronto per cui mi sono ritrovata a preservarlo, così com’era, per poi trovare il momento adatto per condividerlo. Tutti i miei discorsi non rientrano e non si riferiscono nel contesto covid».

Nove tracce, come delle polaroid dettagliate, che compongono un unico grande quadro, brani che fuggono dalla comfort zone e dalla necessità di smettere di proteggersi per mettersi in gioco e trovare la propria voce. «È stato un isolamento forzato che mi è servito, ho cercato di ascoltare me stessa. Trascorrendo molto più tempo con il mondo esterno ho capito che la realtà forse mi faceva paura, mi bloccava in qualche modo, quindi ho cercato nel silenzio della notte e nel buio di trovare la via per gridare, per parlare ed esprimermi», dice. Si definisce una Penelope al contrario: lei lavorava il giorno, mentre Rachele no. Ma Penelope non era solo quello, forse il lavoro più faticoso era nella notte, perché disfaceva tutto ciò che aveva costruito alla luce del sole. «Il lavoro continuo delle donne – sorride – La notte credo sia proprio un mio habitat naturale per trovare spazio o coraggio. Da ragazzina ero così, studiavo di notte per poi di giorno fare scena muta perché poi mi prendeva l’ansia. Il buio mi fa pensare e mi fa soffermare, mi fa ascoltarmi; il silenzio che c’è mi dà la tela bianca dove io posso fare i miei disegni e costruire un mio mondo. Un po’ come quando tutto corre, c’è casino: io mi blocco, mi mette ansia. Non mi piace l’ordine ma ho dovuto accettarlo. Ecco, questa fase di consapevolezza di accettazione è in tutto il disco. Alla fine, si deve accettare. È una condizione, cerco sempre di mettere ordine ma nel disordine trovo un po’ la pace, molto probabilmente perché lo conosco».

Psychodonna è musicalmente multiforme: ballo sfrenato e ballata, sfogo gridato e dramma interiore, un mix di electropop, electroclash e classicità. In tutti i brani Rachele descrive minuziosamente i particolari tanto da avere la sensazione di entrare nel quadro, di trovarsi in quella stanza, su quel preciso divano con accanto un posacenere, come accade sin dalla prima traccia, E poi mi tiro su. «Il primo brano è un po’ come dire: mettiti comodo sul divano e ascolta, ascoltati». Non solo, quando si prosegue nell’ascolto non si può fare a meno di notare che, se la prima parte ha un’inclinazione più poetica predisposta alla ricerca della parola, da Psycodonna in poi i ritmi diventano più incalzanti, più elettronici e pop: «Il pezzo che ha dato il via al disco è proprio E poi mi tiro su. Poi in due anni e mezzo probabilmente sono anche un po’ evoluta e ho preso più coraggio per sperimentare musicalmente. Psycodonna è stato l’apice del divertimento, da uno starnuto sono venute fuori delle voci dentro una chitarra, quindi ho iniziato a registrare rumori e tutte quelle cose lì sono rimaste. Volevo fare una fotografia vera del momento compositivo. Questo vuol dire che è variegato perché ci sono momenti in cui mi trattengo di più e altri in cui mi lascio andare completamente, ma c’è sempre un filo conduttore di ricerca: parto dal pianoforte per poi andare a registrare dei pugni sulla tastiera, c’è un momento di pancia e di istinto e c’è un momento in cui divento stranamente pignola».

È un lavoro molto differente da Mariè del 2015: «In Mariè, che è stata la mia prima prova, c’era una richiesta esterna che mi ha dato l’imput per approfondire e fare i miei primi passi. Ero io ma con un alter ego, più protetta, più personaggio, con i limiti anche musicali degli anni Settanta, era una cosa più a tema. Qui, invece, ho avuto totale libertà e questo vuol dire non aver paura di rischiare con le cose che convivono in me. In Psycodonna c’è sempre un pensiero, una riflessione, ma in alcuni casi è come se fosse uscito qualcosa che avevo dentro da tempo e che cercava solo il momento di essere buttato fuori. C’è tutta una vita da buttare fuori, magari sarà il primo e ultimo disco, ma l’importante è che arrivi l’espressività urgente». Psycodonna è un po’ come un romanzo, parte dalla stanza tutta per sé di cui ogni donna ha bisogno per scrivere – la stanza così ben descritta da Virginia Woolf – e segue le stesse regole di scrittura con un’eroina al centro che lotta per il raggiungimento di un obiettivo e si sa, per la donna è sempre più complicato riuscire a dare un taglio al passato: «L’eterno rimando anche affezionarsi alle sofferenze, al piacere dell’autolesionismo: c’è questo nelle mie eroine che ho preso come esempio di coraggio, dato che un po’ l’hanno attraversato. Però c’è anche la voglia di vedersi per come siamo e arrivo un momento in cui è necessario dare forza alla propria ingenuità e viceversa, dare spazio a tutto a tutti in nostri colori che sono tantissimi e non per forza ricercare sempre diversità tra i lati opposti che ci abitano, ma la ricerca dell’equilibrio continua, che magari non ci sarà mai».

Nel descrivere l’album, Rachele allude a Michael Jackson e Jim Morrison che camminano fianco a fianco. «È un po’ come Morricone che balla il tango con Jackson, è un po’ capire di essere tante cose e quindi aver voglia di farle coesistere tutte. Per cui questo lavoro da solista è libero da ogni altra cosa, al contrario di un gruppo dove un lavoro è potente ma è condiviso e c’è un compromesso continuo. Da sola è anche pericoloso perché a volte nella libertà uno si perde: io ci ho provato e mi sono anche divertita, è stata come una terapia perché ho imparato a conoscermi, lasciandomi andare e facendo spazio anche alle paure». È un album per il 90% tutto al femminile: c’è l’attrice Silvia Calderoni che recita in Penelope, ma anche Meg e Chiara Mastroianni in Due ragazze a Roma. «C’è l’unione della diversità, ma in realtà poi ci legano tante cose. Sono persone che non ho scelto a caso, le ho conosciute e mi sono piaciute, ci ho trovato qualcosa di simile anche se in differenti modi e in questo progetto mi piaceva metterle insieme. Sono collaborazioni nate a tavolino non avrei voluto nessun altro in quei momenti, per cui o accettavano o li cantavo io. E il fatto che abbiano accettato con entusiasmo mi ha dato anche forza di aver fatto la cosa giusta». Ma anche gli uomini, i bravissimi musicisti che ritroviamo all’interno dell’album, hanno una valenza importante. «Negli anni ho curato importanti rapporti umani e artistici e quindi ho creato la mia famiglia, l’importante è che ci sia verità», dice.