Il romanziere vietnamita-statunitense Viet Thanh Nguyen ha ottenuto numerosi riconoscimenti per le sue opere, compreso il premio Pulitzer. «Non abbiamo successo o falliamo a causa della fortuna. Riusciamo perché comprendiamo il modo in cui funziona il mondo e cosa dobbiamo fare. Falliamo perché gli altri lo capiscono meglio di noi», questa la sua opinione sulla natura del successo. Vi porto questo esempio perché penso che Achille Lauro sia uno che ha capito bene come gira il mondo (o meglio, qualcuno sicuramente glielo ha fatto capire). Ma la sua audacia è proprio quella di aver tenuto botta tutto questo tempo, e l’aver fatto sempre l’opposto di quello che gli altri si sarebbero aspettati da lui. Me lo dice seduto davanti la gigantografia della cover del suo ultimo album, LAURO. Ha l’atteggiamento del businessman, la pacatezza e la serietà di un imprenditore davanti la sua scrivania, e che sta per venderti una palazzina di prossima costruzione a Courmayeur. «Vedi la copertina?», dice. «Dopo tutto quello che abbiamo fatto in questi anni, i Sanremo, i dischi… è una cover minimalista, al contrario di quello che chiunque si sarebbe aspettato da me in questo momento. Il quadro fa parte di una mia serie di tele, su ogni tela c’è una lettera». Sullo sfondo bianco si stagliano le lettere del gioco dell’impiccato. «Secondo me è la metafora della vita, un gioco per bambini. Non può vincere l’impiccato ed esserci tutto il nome completo. Per questo c’è la O rossa: sta lì come quando alle elementari ti correggevano un compito. È la scelta di proseguire, come dire “baro, vado avanti”. Rappresenta un nuovo inizio, il rifiuto della fine».
Ogni altra lettera invece è un particolare genere musicale: «La L è associata al glam rock, che non solo ha ispirato la mia carriera, ma rappresenta la scelta di essere. È un manifesto di libertà che il glam rock è stato ed è ancora. Essere tutto e non essere niente. Ciò che è teatrale, il trucco ed il costume. La A è il rock & roll, la storia dell’umanità, un manifesto di cambiamento. La sensualità, la voglia di cambiamento, di rinascita. È la parte spensierata del disco. La U è la popular music, quella che preferisco. In Italia la musica pop è vista di poco valore, frivola, non c’è nulla di artistico dietro il pop. È come farci un’idea sbagliata su qualcuno. Dicevo a Sanremo “Dio benedica gli incompresi” perchè è il genere più incompreso in italia, a differenza del resto del mondo dove è qualcosa di importante. La R è il punk rock, la scorrettezza, l’anticonformismo, il mio cercare sempre di fare qualcosa di unico. “Dio benedica chi se ne frega”. Per me è molto importante il messaggio del punk inteso così». Lo scopo di Lauro è ribaltare le aspettative, fare tabula rasa, trovare nuove vie, fare le cose a modo suo. «Io ho sempre fatto tutto il contrario di quello che si aspettavano da me. Quando facevo urban ero comunque un outsider totale, quando ho fatto Rolls Royce mi dicevano che non avrebbe mai funzionato e di continuare a fare quello che facevo. Anche le scelte del 2021, qualunque discografico avrebbe chiesto all’artista che senso avessero. Io ho avuto la fortuna di lavorare con delle persone che amano il proprio lavoro. Quello che abbiamo fatto è sempre stato tutto mattone su mattone concependo il fallimento come possibilità. Anzi, il fallimento è il successo stesso».
«Chi crede che mi abbiano messo addosso un costume e buttato sul palco di Sanremo non ha capito nulla, dovrebbe farsi sette giorni con noi e capire che livello di dettaglio e di studio della cosa c’è. Chi ha avuto il piacere di fare un passetto in più su quello che siamo, oggi capisce realmente quello che c’è». Lauro è un fiume in piena quando parla del suo lavoro. E a proposito della sua ultima fatica discografica dice che «il disco si divide in due macroaree: la parte più introspettiva, che descrive bene la tempesta dell’anima di tutti e il suo tormento, e l’altra parte è sognante, per i veri sognatori». Non è l’unico scontro o divario interno che vive questo album. All’interno c’è anche una forte tensione generazionale: «Il brano Generazione X è un’occasione per fotografare la generazione di cui faccio parte. Per quanto io non abbia fatto un percorso scolastico ordinario, amo sapere, sono una persona curiosa. È una generazione molto vicina a quella a cavallo tra il 75 e l’80, con gente che non crede più nella chiesa, nel matrimonio, in se stessi. La piaga più grande di questo generazione è il non sapere cosa dovranno essere. Vivono oggi e basta, non lavorano per qualcosa che vogliono essere. Femmina invece è una canzone molto rara, perché parla di una cosa pericolosamente comune, il maschio che si nasconde dietro la sua stessa mascolinità, fotografa quella realtà dove sono cresciuto io, nella periferia estrema di Roma. Sono allergico a quel mondo lì. Io ho capito subito cosa volevo essere. Sono cresciuto con quella generazione lì, con persone molto più grandi di me, e sapevo di non voler diventare come loro».
E a proposito di quel “loro” di cui parla, di quel maschilismo tossico che ereditiamo proprio da quel “loro”, gli chiedo se in qualche modo la sua lotta agli stereotipi di genere abbia fatto bene al dialogo attorno a questo tema nel nostro paese. «Sono molto vicino ai diritti umani, voglio aiutare le persone concretamente e non parlo solamente della differenza di genere. Parlo dei diritti umani in generale, penso che sia la base del nostro presente, il diritto di scegliere per sé stessi. E non è solamente la scelta di amare, che mi sembra una scelta abbastanza legittima, è anche dare la possibilità ai giovani di capire che scegliere è possibile, anzi è doveroso per un cambiamento. Parlo della scelta di pensare in modo diverso, dell’essere coraggiosi rispetto alla proposta musicale, scegliere chi amare e come amare, al pensare a qualcosa che non esiste rispetto ad un futuro. Siamo in un momento sicuramente di transizione della storia dell’umanità, se non partiamo dai diritti umani, da dove vogliamo partire?». Guarda in basso per qualche secondo, con i gomiti poggiati sulle gambe e le mani fra le mani. «Mi sembra anche assurdo parlarne oggi, sai? Che questo argomento sia motivo di dibattito, che i diritti di ogni essere umano non siano una priorità in questo paese. Siamo figli di cento anni di stereotipi pericolosi, se stiamo ancora così vuol dire che non abbiamo imparato niente dalla storia».
Mi parla di cambiamento. Di rivoluzione. Di dovere verso ogni essere umano. E nello stesso momento sento bruciare in lui il peso dei giudizi che tutta Italia si è sentita in dovere di dargli. E oggi è come se volesse rispondere a tutte le accuse e le infamie raccolte in questi anni. Quasi a dire: voi che pontificate su tutto, avete la formula magica del successo? Voi avete capito come va il mondo? Dice: «Molte persone mi dicono che tutto quello che faccio con il mio immaginario potrebbe essere compreso meglio se facessi meno, perché il mio personaggio può sovrastare la mia musica. Allora mi sono fatto una domanda, significa abbandonare il successo senza avere paura che domani questo potrebbe non esserci più? Perché sennò sarei rimasto nella mia confort zone, non avrei sfruttato Sanremo per fare uno show nello show. Invece io porto dei progetti artistici. Dovrei cercare il successo con il singolo estivo? Scrivere d’amore anche se in quel momento non sto amando o non sto soffrendo per amore?». E così, con una risposta sincera e detta quasi a volersi togliersi un macigno dal petto, ho capito che Achille è Lauro anche con dieci parrucche e tacchi a spillo, e Lauro è Achille anche in jeans e maglietta. E se potesse leggerci, Viet Thanh Nguyen avrebbe tanto da imparare sulla natura del successo, almeno quanto ho imparato oggi io.