Måneskin e rock: provate a pronunciare queste due parole senza provocare un malore istantaneo di un rocker in qualche angolo remoto del pianeta terra. Impossibile, verrebbe da dire. «Nasciamo live, continueremo live e moriremo come tali». Così i quattro ragazzi romani usano così definirsi quando si parla della loro natura e ne hanno ben ragione. In molti li ricordano come adolescenti tutt’altro che sprovveduti, presi come erano dal volersi conquistare il primo pubblico per le strade di Roma. Un album, tanti live e una vittoria del Festival di Sanremo: quella crudezza di strumenti, quella rabbia e determinazione è rimasta invariata ed è tuttora il comune denominatore del loro ultimo album in uscita venerdì, Teatro d’ira. Un titolo forte, un apparente ossimoro tra un ambiente elevato ed un sentimento basso. «Un’ira che – precisa Damiano – se collocata in un contesto come quello del teatro diventa catartica, portatrice di un cambiamento (quello di cui, con un giusto tocco di presunzione, ritengono di essere portatori ndr)». Effettivamente Damiano, Victoria, Thomas ed Ethan hanno concretamente attuato ciò di cui parlano, dal primo momento in cui hanno calcato il palco più famoso d’Italia in tutine luccicanti e make up aggressivo, inneggiando alla libertà musicale, di stile e di genere. Il loro nuovo progetto è una perfetta trasposizione dalla dimensione live, con tutta la potenza e ruvidezza che la contraddistingue, alla sala di registrazione. Mesi di riunioni al Mulino Recording Studio di Acquapendente, nelle campagne del viterbese, hanno portato con la mente e con gli strumenti i Måneskin ai vecchi tempi in giro per i club d’Italia e d’Europa, riportando a galla la voglia di sperimentare, tra power trio, analogico e amplificazioni.
Se nei testi emerge il concetto del diverso a tutti i costi, l’intento musicalmente parlando rimanda ad altro: «Nel disco sono presenti brani in italiano e in inglese: pensiamo di essere riusciti a dare una certa varietà senza però sfociare in una natura diversa – dice Vic – Abbiamo voluto mantenere uno stile scarno, dando spazio agli strumenti, presentando varie sfaccettature di quello che siamo». Insomma, hanno senza dubbio le idee chiare: ribelli e sfrontati non si lasciano cambiare da niente e nessuno. Ad eccezione dell’Eurovision Song Contest, evento che, da regolamento, li ha visti costretti a modificare parte del testo per un paio di parolacce. Una censura accettata di buon grado che va a cozzare con la loro natura ribelle e libera dirà qualcuno in tono provocatorio: «Siamo ribelli ma non scemi – risponde Damiano – L’Eurovision è un’occasione importantissima per far passare il messaggio delle nostre canzoni ad un pubblico più vasto. Di certo quello che vogliamo dire non è tutto in quelle due parole che ci hanno fatto censurare». La cover del nuovo album vede comparire tutti i membri della band, in ordine sparso e, sorprendentemente il frontman Damiano non in primo piano, bensì sul lato sinistro, con una lunga veste a fiori. «Mi sta bene, c’ho delle gambe da paura», ironizza, sottolineando il messaggio che alla band preme far passare attraverso i loro testi e le performance: «La nostra generazione si sta interessando alle categorie prima nascoste perché troppo scomode ed ingombranti. Si sta aprendo sia a livello comunicativo che pratico. Tanti si stanno liberando dei preconcetti con cui si viene educati. Sei maschio, ti deve piacere giocare a calcio e ti devono piacere le donne. Non è così, non per tutti. Tanti se ne stanno accorgendo e più accade questo, più se ne parla e si fa informazione e diventa la nostra normalità. Questa è la nostra speranza».
In Teatro d’ira, oltre che per il classico sound dei Måneskin, c’è spazio per una ulteriore sperimentazione da arpeggi ridondanti e ritornelli esplosivi, gli stessi che si ritrovano in un pezzo che, dal titolo, ricorda un vecchio successo del Maestro Agnelli. «Paura del buio – spiegano – parla del rapporto conflittuale tra la musica e l’artista, ora fonte di positività, ora di un qualcosa che ti succhia le energie». La paura di cui si parla appartiene alla società odierna, piena di pregiudizi, spaventata dal futuro, dal progresso e da quello che questo porterà. «Proverete a fermarci, ma lo farete solo perché sarete voi ad avere paura del progresso musicale che noi stiamo portando», diranno quasi all’unisono, con quella sfacciataggine da ventenni, celata dietro risatine e sguardi complici. Spazio anche alle ballad con Coraline, una favola senza lieto fine, un crescendo dall’inizio alla fine, «una situazione di vita reale metaforizzata e messa in musica», precisa Damiano. Quasi mai, nella piacevole chiacchierata con i Måneskin, esce fuori la parola rock. Non appena si fa riferimento al genere, alle polemiche su cosa loro possano rappresentare nel mondo della musica di oggi, hanno la risposta pronta: «Mangio bevo e vado a letto anche se per voi non sono rock», dirà tra una risata e l’altra Damiano. «A noi non interessa se per gli altri lo siamo o meno – aggiunge Vic – Noi facciamo la nostra musica, se una persona ascolta con orecchie e mente aperta, siamo sicuri che possa apprezzarci senza dover per forza dire che non siamo rock». «I vestiti cambiano, le droghe anche, e così la musica. È l’attitudine che rimane immutata», diceva il caro Paul Weller. L’avere un’identità così fluida e libera, portarla nel mainstream e sul palco del festival di Sanremo fa della loro senza dubbio un’attitudine sfrontata e ribelle. E perché no, rock.